giovedì 5 maggio 2016

"… in piedi testardi nella tempesta”: su Storie di un tempo minore


Angela Angiuli, Storie di un tempo minore, FaraEditore 2016
recensione di Vincenzo D'Alessio

http://www.faraeditore.it/html/filoversi/tempominore.html La raccolta poetica di Angela Angiuli, edita quest’anno da Fara, se verrà letta da occhi innocenti svelerà un mondo solare, verde nel profondo, profumato di pane lievitato all’alba, pieno di fragranze e colori.
Cose e sentimenti che tutti noi  conosciamo?
Leggendo i versi delle due sezioni che titolano “Il mattino dopo il sabato” e “Io con la mente scalza” scoprirete che non è così. C’è un  mondo parallelo al mondo ostinato della corsa alla felicità ad ogni costo, al possesso  come unico credo terreno; l’invito è  a capire  l’umano, le dita della  mano che scrivono, il cuore del sangue che pulsa nelle caverne cerebrali, la trasfigurazione di fronte al dolore universale della perdita delle persone amate.
Non basta la Fede cristiana a ricomporre in versi “il vaso del tuo corpo” (pag. 9)   “fratello e figlio dei miei giorni migliori” nella poeta, né in noi che leggiamo. Si scatenano forze terribili, una falsa quiete che geme nei vincoli della notte.
Bisogna accostarsi a questa raccolta invertendo in primo luogo la scelta fatta dalla poeta: leggere dal fondo della seconda parte  per giungere all’epigrafe che richiama alla nostra mente la poesia di Ugo FOSCOLO: “In morte del fratello Giovanni”.
 “Incontriamoci in una pagina bianca /  scriviamo una storia diversa /  incontriamoci dove possiamo lasciarci dentro /  ciò che non ci conosce / apriamoci a un buco nella tempesta, / al riparo dal mondo dei sani /  dove nessuno si avventurerebbe.” (pag. 64)
L’invito è per noi, amico lettore, proprio noi che al mattino aspettiamo al bar nell’odore  del caffè, di riprendere il nostro ruolo sociale,  con lo squillo impersonale dell’Iphone che ci avvisa dei messaggi in arrivo, delle notizie dal mondo, dell’amica che invia la sua foto su Facebook, noi che non scorgiamo la “tempesta” fino a quando non ci siamo dentro e “il tempo minore” inizia a scorrere proprio  come scrive la Nostra a pag. 9 : “(…) stare in piedi testardi nella tempesta / tenere la faccia dei piedi nudi / sopra la buccia della terra…” /.
La bellezza dei versi con i quali la poeta si consola, ci consola, della perdita del fratello sospingono la tragicità della morte, il pensiero quotidiano, l’inevitabilità della sofferenza, oltre il freddo del sepolcro, oltre i passi veloci delle pie donne al Sepolcro del Dio sceso in terra: “(…) il tuo Presente non è più lì /  e l’Assenza, solo la tua Assenza mi concede /  di starti accanto – ora senza incomprensione – /  espressa veramente e tu tutto comunione, / perché solo ora ho parole di altri sensi /  per stare con te senza alcun timore.” (pag. 14) .
I vivi che testimoniano l’assenza degli affetti scomparsi. La parola  assurge ad essenza della memoria, a vento che moltiplica la forza generatrice della nuova vita ogni primavera, che trasmette nei secoli: “ (…) smarrimenti da raccontare /  storie minori da far ascoltare. /  Lui ti ha impastato la vita / aggiunto lievito, acqua, sale / tolto eccedenze /  misurato quantità” (pag. 17) .
L’analogia con il “pane fonte di vita”, transustanziazione nel segno cristiano, compare in diverse poesie della presente raccolta di modo che l’energia dell’affetto, raggiunto dalla morte, resti in chi scrive e in chi legge: “(…) perché siamo polline per fecondare / farina per sporcarci le mani /  Pane da impastare.” (pag. 27).
Vorrei a questo punto soffermarmi sulle figure retoriche utilizzate, sulla valenza della poetica della Nostra nella Storia delle Letteratura Italiana contemporanea, sulla scelta del verso libero, delle metafore, delle sineddoche, delle metonimie; scadrei forse nella maldestra figura del critico che attende all’interpretazione versatile di Angela Angiuli e della sua raccolta.
Per questa volta, sospinto dall’unica barca che ho conosciuto nel traghettare il dolore della perdita di un grande affetto famigliare, approderò con te, amico lettore, sulle rive dove il naufragio diviene “dolce” e riprendo i versi dell’autrice: “(…) l’Esercizio Divino è nel buco, /  scavare, fare spazio, allargare le sponde /  e vedere dentro Cose Nuove.” (pag. 43).
L’utero materno, la grotta delle conoscenza, l’avello al quale si ritorna nel grembo della Grande Madre: “(…) Vide da lontano un busto grandissimo; che da principio immaginò dovere essere di pietra, e a somiglianza degli ermi colossali veduti da lui, molti anni prima, nell’isola di Pasqua. Ma fattosi più da vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi” (Giacomo Leopardi: “Dialogo della Natura e di un Islandese”).
Montoro, 5 maggio 2016                        

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