recensione di Nazario Pardini pubblicata su Alla volta di Leucade
FaraEditore. Rimini. 2012. Pg. 56
Una sintomatica metaforicità riguardante il tempo,
i “detriti” e la fragilità della vita
La neve. Titolo intrigante ed di prodromico invito ad una lettura di polisemico senso; di una plurivocità acchitante; di un innesto generoso a significanti che fanno del reale una sintomatica metaforicità riguardante il tempo, i “detriti” e la fragilità della vita. Tutto scorre e tutto si scioglie al vento come un nevischio che l’Autore pensa su Napoli ma che in verità Egli traduce in sostanza e potenzialità creativa, fonica e cromatica di significanza ontologica. I versi si distendono su uno spartito ampio e figurato, affidati al supporto d’intrecci di una narratologia fortemente epigrammatica che sa volgere i suoi verbi ad un lirismo di contaminante resa poetica. Direi nuova per movimenti fono-prosodici e per sintonia contenutistico-formale. Una ricerca di ampio respiro, dove l’Autore, con espansioni lessico-prosodiche, va oltre il sintagma, oltre la misura usuale dell’impiego formale, perché è l’anima che lo richiede, sono gli input emotivi a volerlo; ed è così che il dire allunga il tiro intrecciandosi in costruzioni di una resa poematica nuova e visiva; anche memoriale, o descrittiva o riflessiva, ma pur sempre di un lirismo realistico, o di un realismo lirico alla Capasso. Ed è così che il Poeta fa delle realtà fenomeniche veri volumi del suo sentire; veri corpi dei suoi input emotivo-intellettivi che si distendono – e non è azzardato dirlo - su percorsi di ampia prosa poetica; dacché tanto carico è il cuore di confessioni da esternare e così gonfia la sacca di esperienze vissute da richiedere ampi spazi nella loro funzione rivelatrice:
se non nella bocca a nord del vulcano
nei pochi giorni del cristallo dell’inverno come una minaccia
che ricorda quel che non abbiamo temuto abbastanza
ma il gelo, quello sì, è dentro di noi fino alle ossa
e lo sentiamo che morde le giunture e crepa le ossa
fino al midollo. Ce ne accorgiamo di sorrisi tirati
dei passanti, dai gesti circospetti di chi vive per strada
dalle urla dei ragazzi impresse nell’aria, dal vostro esitare.
Un freddo e un ghiaccio che va oltre la questione atmosferica, e che si fa intimità nascosta, incontro di sguardi, incomunicabilità fra animi, dove “anche le mura sapranno chi siamo scrutando la paura dei nostri occhi e allora potremo solo obbedire ascoltando il silenzio che si insinua tra il vocio e il magma di piazze e strade, che invade portoni e giardini a mezzacosta, che copre frammenti di dialoghi affannati di bocche e cuori e allora, tra vestiti gettati e l’odore di arance cadute, saremo veri e senza età come chi dovrà morire sul serio”. È da questo frammento - Napoli, 2007 - che inizia la scalata di un poema tutto vòlto a concretizzare le vicissitudini ontologicamente umane, trasversali, e di concretezza spirituale che trovano nel bianco sporco della neve il simbolo più consono “a una voragine di morti lavati via da marciapiedi e palazzi spalle al mare”. Un frammento che può porsi come momento incipitario con valore eponimo e che fa da antiporta ad una successione di altri XXIX a cogliere, con grande rilevanza creativa, ricordi e lacrime; passato in occhi chiari; grigi sporchi di strade; risate sguaiate e sguardi ghiacciati; esodi tra cortili e sgomenti; sagome in controluce; risacche, maree, madri; macerie e detriti: “solo silenzio e radici rinate sotto l’ultima neve che cade… nera… Accecante”.
Nazario Pardini