venerdì 5 giugno 2015

L’anima lucana

di Vincenzo D'Alessio


Castelsaraceno, un paese in provincia di Potenza, ha il volto corrucciato di un vecchio contadino, cotto al sole, pieno di forze autentiche rotolate a valle e disperse nei paesi del Nord. Un sorriso pigro che accenna alla saudade, la carezza nell’aria delle ginestre impazzite nel giallo dei fiori profumati, il torrido rossore delle montagne, le ombre altissime dei calanchi. Quanto amo questi luoghi, quelle croci di legno, senza nome, ingiallite all’ombra della memoria contadina che veglia sull’argine delle poche case sottratte alle fiumare. Un’ospitalità antica nel gesto di stringerti la mano.
Mi sveglio mentre nell’aria fresca del Monte Alpi giunge il canto poetico di Teresa Armenti, lucana, intenta a educare i giovani che emigreranno:

Di sera il cielo a Castello 
assume un colore diverso 
direi quasi turchino 
che diventa celestino
tra Castelveglio e Raparo. 
È un colore indefinito
segna i contorni del monte 
accentua la linea dell’orizzonte.

Castelveglio e il Raparo sono le montagne che difendono da secoli questa minima valle dove la transumanza si apre verso le sponde joniche di Metaponto. Tratturi antichissimi di sorgenti nascoste, di querce secolari, di faggi giganti. Mi immergo mentre mi rado nello specchio sbiadito nei contorni e il freddo dell’acqua del rubinetto mi sveglia dal tepore del sonno.


Incontro Vincenzo Capodiferro, lucano, filosofo e poeta, alunno di Teresa Armenti che si trattiene per poco prima di riprendere il viaggio verso Varese dove insegna. Ci stringiamo la mano, un caffè ci accompagna: ha il volto sereno, gli occhi puntati al Raparo, il giro veloce di un falco attraversa il nostro sguardo. Ascolto l’anafora del suo cuore pulsante mentre ci muoviamo verso il passo dell’Armizzone:

Ho lasciato il mio paese,
un gruzzolo di case 
tremanti di freddo, 
arse di noia tutto l’anno. 

Ho lasciato pietra su pietra
senza calce, embrici 
abbracciati sui tetti,
vecchi seduti a contare 
i giorni del trapasso. 

(…) 

Ho lasciato che morisse
di vecchiaia il mio paese, 
vegliardo inchinato 
al re Raparo da mille anni.
 
Ho lasciato tutto 
il suo baratro di silenzio.
Nella mia lontananza 
risuona l’eco 
del suo fantasma. 


Da questo punto di transito così alto si scorgono tanti cocuzzoli montani, l’invaso del Pertusillo, i luoghi sacri all’Angelo Michele, le mucche podoliche sparse come chiazze bianche. Avverto il senso dinamico del volo in questo vento forte e naturale, asciutto, che trascina la voce lontano.
Scendiamo a mangiare da Federico: basso, robusto, mani forti. Ha nipoti che lo aspettano come rondini pronti al volo.

Castelsaraceno, 30 maggio 2015

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