recensione di Eugenio Nastasi
pubblicata su ilciottolo.blogspot.it
Fra i libri di poesia recenti, Il tocco abarico del dubbio di Angela Caccia, prefato dalla mano felice di Anna Maria Bonfiglio, è un testo che strattona il lettore perché guarda all’essenziale: nella sua amarezza, nella sua resistenza morale. Incontriamo un fare poesia che non è fatto di impressioni e nemmeno di abbandoni puramente vocali, ma di segrete meditazioni; come a dire d’istinto e riflessione. Di pagina in pagina, di sessione in sessione, una velocità analogica, una prontezza di scansione immaginosa che fanno pensare a letture di prima mano; e più ancora, a una tempra di meditazione da indurre a sostenere, con l’autrice, un modo profondo di partecipare a una condizione dell’uomo come se fosse appena uscito dalle mani del Creatore.
Angela Caccia, nel suo aprirsi alla condizione assoluta di sentirsiessere ed esistente, scrive per imprimere negli occhi che la leggono, prima che nei pensieri che la collocano da qualche parte nella mente, sillabe scheggiate dalla nuda verità, quindi in grado di esplorare i sentimenti e il mondo per nominarlo o ricrearlo. Dunque una donna viva e vera e, da quel che si ricava, una così mortale cristiana che ogni qual volta cerca un vocabolo (o il discorso) se lo deve inventare di sana pianta, senza alcun sostegno se non il suo credo e la propria volontà di sentirsi in comunione. Tanto da scompaginare il disegno del suo lavoro (il tocco abarico) perché l’immagine che raggiunge subito dopo diventa altro, altro che urge e irrompe sulla pagina per dilacerarsi in una confessione di continuo tentata e ripresa, discorso che vuole, in qualche modo, essere il disegno stesso dell’anima piuttosto che un’allegoria della medesima.
Con questa materia Angela carica la pagina di una tensione ontologica tipica del poeta che scrive per cercare un interlocutore inferenziale, come direbbe Umberto Eco, poiché virando a 360° apre tutti i numeri del suo repertorio, e li manda in giro per scoprire le radici infinite della selva della vita, usando i versi in uno sguardo che propone e chiede di essere fissato, capito e magari condiviso. E non è pretendere di sentirsi arrivati, semmai è un grido sincero o, più semplicemente, il dato inestinguibile della sua coscienza.
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