recensione di Angela Caccia
Forse
in ognuno di noi, per certo in chi spulcia versi dal quotidiano, c’è una parola
ricorrente, camuffata in mille sinonimi e particolarmente amata, oppure un
equivalente: una semplice bizza. Un segreto e ben celato start da cui ripartire quando l’onda cancella tutte le nostre orme
alla battigia. A lei – parola o bizza che sia - le nostre chiavi di riserva:
una mappa per ritrovare le coordinate.
Mi
soffermo, in questa silloge, su una poesia in particolare, attraverso cui, a
torto o a ragione, ho filtrato il resto. Da pag. 18:
non ho radici
sosto dove sto bene
rubo all’istante il suo significato
consegno ad uno scrigno
ciò che ho avuto
affido al vento ciò che ho dato
poi
continuo a nuotare
Poesia
zingara, con tutto il fascino che l’aggettivo implica, che declina in versi l’essere
nomade apolide libera dell’autrice.
Né tra le altre liriche si incontra il sottile
compiacimento di chi si dichiara divincolato da tutto e, in verità, è già
legato a doppio nodo ad un concetto specifico di libertà che lo ingabbia; la De Angelis conosce bene “anche” il peso del non avere radici - il passo è sempre
su un terreno paludoso e instabile - non le rinnega, semplicemente se ne divincola
per volare e planare altrove, e lì (ri)fiorire in un innesto naturale di nuovi pollini.
Alcune
“fioriture” le ho particolarmente gustate.
Da
pagina 19:
Il poeta sa
farsi pastore del destino
non si ostina ogni giorno
sulla bilancia
Sa di non avere lo stesso peso
in estate e in inverno
Lascia la finestra socchiusa
la porta sempre aperta
si nutre di attesa
e
mormorii
Da
pagina 41:
Quando avrò un viaggio tutto mio
resterò a casa
lo adagerò fra i tesori
la luce delle gioie farà strada
fin dove l’arcobaleno colora la tempesta
e
l’impossibile raggiunge l’utopia
Da
pag. 52:
Il pianto non libera
vuole altre lacrime
è sleale scava facilmente
l’anima
resa morbida
fino
a renderti muto
Anche al lettore più distratto non sfugge una
particolarità, la bizza di cui parlavo all’inizio: nelle liriche della Nostra
non c’è punto. L’omissione, a mio avviso, ha un significato diverso da quella
praticata da Ungaretti, per il quale la poesia “non finiva” con l’ultimo verso
che, pertanto, non meritava un punto;
per Carla… è la vita che continua, tra alti e bassi, grugni sorrisi occhi
bassi, ma continua, coriacea, luminosa, inclemente. Come la natura per i Greci,
anche lei, la vita, è innocente e crudele.
Poesia
dove la libertà è misurata per quella che è: parola alta, troppo alta per l’uomo.
Così appare, almeno, fino a quando non si scopre che è dal basso, negli
anfratti più reconditi di noi stessi, che inizia a germogliare. E presuppone
una fatica. Intima. Prima che nelle azioni, la libertà si presenta come un
atto: l’atto del fronteggiare la nostra paura di non saperla gestire, di non
poterla reggere, di non conoscerla.
Ma
tutto questo Carla lo sa già.
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