lunedì 4 maggio 2015

Su Il verbo infinito di Giuseppe Carracchia

Casa Editrice Prova d'Autore Catania, 2010

recensione di Caterina Camporesi


Giuseppe Carracchia è un giovanissimo e promettente poeta che vive in Sicilia. A diciassette anni pubblica la sua prima raccolta, Pensieri notturni, alla quale due anni dopo segue, Anime vagabonde.

La terza raccolta, Il verbo infinito, è seguita da La virtù del chiodo (Edizione l'Arca Felice).

L'esergo che anticipa il volume del quale qui ci si occupa – La semplicità non é il punto di partenza ma il fine – annuncia le tappe di un interessante percorso umano e di una specifica scrittura poetica.

Il volume è suddiviso in sette sezioni, tutte intitolate con verbi all'infinito: Fiorire, Esistere, Amare,

Riposare, Sbendare, Condividere, Vivere.

Nel Fiorire, “la primavera dell'inverno” che ha già negli occhi “il mandorleto in fiore” fa pregustare la conquista di una vitalità duratura, perché il meglio tende a restare, nonostante la morte, alito di vento che ci sposta semplicemente “più in là.

Nell'Esistere, è la figura retorica dell'ossimoro a suggellare in modo efficace e incantevole la potenza della libertà che può, al contempo, unire e disunire.

L'amore ha la prerogativa di conservare e moltiplicare la profondità e la bellezza, lasciando nell'ombra le componenti razionali o razionalizzanti della conoscenza: Se chiedi a me perché / amore, ti rispondo non so / e se so non capisco (...) perché il nostro amore / è più grande del sapere / e cresce. L'amore, poi dovendosi nutrire di verità, non può rinunciare al coraggio della libertà, che comporta sia vicinanza che lontananza: amare è credere che ci sia qualcosa / da cui fuggire e qualcosa a cui tornare.

Nel Riposare, all'affanno che cadenza le ore del giorno segue la dolcezza della notte, allorquando finalmente essa accoglie nel suo grembo corpo e mente lasciando fuori dall'uscio tensioni, fatiche e preoccupazioni.

Gli affetti famigliari circolano dolcemente e liberamente in queste pagine, investendo anche la figura paterna alla quel é dedicata la sezione Sbendare.

Qui il poeta reclama il diritto di crescere assecondando i propri tempi, e, se c'è una perfezione da raggiungere, essa si conquista con una quotidiana cura dell'imperfetto. La messa in campo dell'impegno nobilita l'esistenza dell'essere umano: ogni istante assume in sé il significato dell'eterno.

Nella sezione Condividere, oltre all'amore che dona significato a tutto, é esaltata l'amicizia come balsamo e salvezza nei confronti tanto delle insidie, quanto dei dolori dell'esistenza, un amico é il miglior sarto / rammenda la ferita della vita ed evita l'infarto.

La raccolta si caratterizza per l'utilizzo di neologismi, vocaboli intriganti, come “acconcata”, “spagliare”, “allunaggio” e anche per audaci accostamenti come “dattilografare garofani” in omaggio alla ragazza Carla e al “padre” Elio Pagliarani.

La parola “vento” compare di frequente, “riempirsi di vento”, “seminare il vento”, “sagome di vento”, “al vento prestavano i corpi” sono solo alcuni dei numerosi esempi.

Volendo indicare la cifra poetica di Giuseppe Carracchia, mi pare che essa possa essere rintracciata nell'intricato “mestiere di vivere”, essendo la vita stessa l'avventura più appassionante che, più fra tutte, richiede serietà, impegno, e costanza al fine di accogliere gioia, dolore, fatica, tristezza progettualità per entrare così interamente dentro il mondo, superando modalità solipsistiche.

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