lunedì 9 marzo 2015

Nelle stanze remote di Sandro Serreri

recensione di Rocco Pezzimenti

Da decenni ci si interroga sul senso e il valore della poesia in una realtà dominata dalla tecnica e da una presunta, e non di rado esasperata, razionalità. Che spazio possono avere i poeti? Nessuno, se non quello di essere condannati, data la loro raffinata e non intesa sensibilità, alla solitudine e all’incomprensione. Eppure i versi, anche se faticano a essere recepiti, hanno, sovente, un valore profetico. La poesia, anche quando parla del passato, ricerca, scava, individua motivazioni che tornano utili a tutti, anche a coloro che trascorrono la vita distrattamente, se solo avessero voglia di fermarsi qualche attimo a leggere e meditare quanto scritto e sofferto, proprio dai poeti. 


È questo il caso delle poesie di Sandro Serreri Nelle stanze remote. Il titolo conferma quanto appena detto. L’autore sa, con delicatezza ma anche con franchezza, aprire i pertugi più reconditi del suo passato e rivisitarli con la saggezza della vita vissuta. Ne viene fuori un quadro, a volte, rude e nello stesso tempo sereno e, a mio modo di vedere, mai disperato perché da quelle stanze esce sempre la forza di ricominciare, di rimettersi in cammino come si legge in uno dei testi più significativi, lasciami andare, che si conclude proprio così: ed io a lei / non ho più paura! / lo so! mi rispose / ed allora, sognai / di essere me stesso. Versi, insomma, come itinerario di liberazione o di riappropriazione che in fondo, a ben vedere, sono la stessa cosa. Non è certo un caso, credo, che questa poesia venga dopo Clessidra, che sembra concludersi senza speranza dato che si frantuma dopo che inciampando / cade, e si rompe con lei / tutta la nostra vita. È da questa apparente disperazione che nasce il componimento seguente, appena citato, che indica il desiderio mai sopito di riprendere la strada.

Da quanto detto, emerge che, pur nella singolarità delle poesie, il libro può, a mio modo di vedere, essere letto come un unico poemetto epico dell’esistenza. La speranza, che pur tra mille difficoltà, abbiamo colto nell’epilogo, è già presente nelle prime pagine a mo’ di prologo. Il componimento Non m’hai tradito si chiude in modo alquanto chiaro: Ed ancora, mi smarrisco / nelle tue mute parole / d’Amore. / Ho radici mature, ormai / nel seme dell’anima. / Non m’hai tradito / Signore! / Amen. Nel componimento seguente, Nei paesaggi immobili, si tocca con mano l’immobilità presente nel titolo. Non è però una immobilità pigra, ma implica la fermezza e la forza della poesia, pur in mezzo a quanti, dicevamo all’inizio, trascorrono la vita distrattamente. Come non fermarsi, almeno un attimo di fronte a certi versi e interrogarsi? Guardare il cielo / e commuoversi / nel vedere / distratti sognatori / sorridere. È la fermezza di coloro che sanno attendere nella roccia delle loro convinzioni, come attesta una poesia che andrebbe citata tutta L’attesa.

Da qui i versi assumono contenuti religiosi, nel senso più bello del termine, alla maniera del componimento Fuoco, che mi pare essere in linea col miglior Cantico delle Creature. Un creato che non tutti sanno guardare. Basta leggere Ontario, frutto del “naufragar” canadese. È lì che I nostri occhi, mortali, mostrano tutto il limite / di una miopia fuori luogo, che ci impedisce / di gettare lo sguardo al di là. Sguardo che il poeta sa gettare, come emerge nel componimento seguente Andai nei boschi, non a caso ispirato dal più individualista degli scrittori H. D. Thoreau. Nei boschi Andai durante il tempo della mutazione / genetica, quando i verdi, timidamente / si spogliano, lasciando all’eccesso / dei gialli e dei rossi, campo libero / affinché ne approfittino, barbari! … Andai, perché qualcuno, non ricordo chi / mi aveva consigliato di viaggiare, oltre / l’oceano, di toccare l’orizzonte … Vi andai intimorito dai disastri del cuore / dalla confusione dei sentimenti …, va il poeta ed incontra i suoi simili Walt ed Emily e così fui felice, almeno per un giorno.

Il componimento Alba, raggiante e luminosa ci dà modo di considerare un altro aspetto dei queste poesie non certo secondario: I versi sono “impastati” di colori e di note musicali. Non solo perché le poesie sono ispirate sulle note musicali di brani universalmente conosciuti, ma anche perché evocano colori e sensazioni che inebriano il lettore attento e sensibile. L’autore è ben consapevole di tutto ciò che non si può certo ritenere un fatto inconscio. Si legga, al riguardo, Non aver paura. La sua conclusione è emblematica, non solo del destino dei versi, ma anche di quanto stavamo dicendo. Non aver paura, se tutti i tuoi versi, universalmente / immersi nel mondo, non son più parte di te, ma / s’impastano, miracolosamente, con tutte le umane sostanze.

In questo impastarsi c’è la consapevolezza di compromettersi, di correre, per così dire, a fianco alla vita, a volte, persino anticipandola. Basta leggere Mio fratello: Ora, morta la morte, il morire è morto, ma io resto vivo … gli ho rubato la scarpa / destra, gli ho regalato la mia e, bisbigliando, gli ho urlato: / Così possiamo continuare a correre, per tutta la vita. È il nascere, o meglio il rinascere, dalla disperazione. È la speranza che emerge con tutta la sua forza di virtù attiva, raramente considerata in questo senso. Speranza che genera attesa, mai vana, perché fondata sulla vita e sul Vivente per eccellenza. Speranza che emerge prepotente Nella notte di Natale: osservano la Cometa / volare sui tetti / e, oltre i vetri / le case, ospitali / dove, tutto è pronto / i canti, i cuori / è Lui, finalmente. Questo avverbio così consolante, mi sembra, racchiuda il segreto dell’intera raccolta.

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