lunedì 9 marzo 2015

News da Adele Desideri

Gentili lettori, segnalo quanto segue

*Convegno Le donne e la poesia. A cura di Tomaso Kemeny, Adele Desideri e Cinzia Demi


Interventi introduttivi di Tomaso Kemeny, Adele Desideri, Cinzia Demi

Ospiti relatori Maddalena Capalbi, Rita Pacilio, Margherita Rimi

Casa della poesia, Palazzina Liberty, Largo Marinai D'Italia, Milano, 13 novembre 2014
Postato in farapoesia.blogspot.it/2015/01/audio-del-convegno-le-donne-e-la-poesia.html. Ringrazio Alessandro Ramberti che ha ospitato l’evento nel suo blog.

*Giornata mondiale della poesia.
Prendi un verso dai poeti e dipingi il mondo di pace. Mostra di dipinti e maratona poetica.
Presso la Sala del Camino, Largo V. Vela, Arcore, Ore 17-19.30, 21 marzo 2015
A cura del Comune di Arcore, Africa Solidarietà Onlus e Cheikh Tidiane Gaye. Con la presenza del Sindaco Rosalba Colombo e dell’Assessore alla Cultura Paola Palma. Presenta Rosa Elisa Giangoia.




*Presentazione di Stelle a Merzò (Moretti&Vitali, 2013) di Adele Desideri, a cura de La Casa della Poesia di Monza. Le Cucine di Villa Reale, Villa Reale di Monza, Viale Brianza 1, 15 aprile 2015, ore 18


*Presentazione del romanzo di Paolo Lagazzi Light Stone (Passigli Editori 2014), a cura di Adele Desideri, Giancarlo Pontiggia e Carla Stroppa, Biblioteca Sormani, Sala del Grechetto, via Francesco Sforza 7, Milano, 22 aprile 2015, ore 18


*Recensione di Adele Desideri a Antonietta dell'Arte, I desideri della fiaba (Passigli Editori, 2013), pubblicata in www.versanteripido.it, 1 gennaio 2015. 


I desideri della fiaba di Antonietta Dell’Arte, recensione di Adele Desideri
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I desideri della fiaba di Antonietta Dell’Arte, Passigli 2013, recensione di Adele Desideri.

Antonietta dell’Arte, siciliana di nascita, risiede a Milano. Tradotta soprattutto in inglese, ha creato sette murales, con il pittore Nani Razzetti, nel Comune calabrese di Diamante; è stata animatrice, negli anni Ottanta, del centro culturale milanese Lusca e ha ricevuto l’Ambrogino d’Oro nel 1993.
I desideri della fiaba è, appunto, un delizioso volume di fiabe, raccontate “stranamente” in forma poetica.
Scrive in proposito, nella prefazione, Gio’ Ferri: “L’uguaglianza tra poesia e fiaba: entrambe rendono possibile l’impossibile, rivoluzionano tempi e spazi, donano un (…) emozionale senso di libertà. E lo fanno trasportando poeta e lettore nell’universo altro del silenzio”.
Ribadisce la dell’Arte, nella sua nota al libro: “La fiaba è, in qualche modo, poesia e la poesia è fiaba. Non per i ritmi che sono diversi, ma per l’invenzione, la creazione, la possibilità di rendere possibile l’impossibile, visibile l’invisibile e viceversa”.
Dunque: fiabe, poesie, libertà, creatività e silenzio.
Anche il titolo, però, pare d’acchito “strano”: le fiabe hanno i desideri? O, piuttosto, alludono a desideri irrealizzabili?
Man mano che, tra i versi della dell’Arte, affiorano le fiabe – nel leggiadro girotondo dei tempi all’imperfetto o al passato remoto, delle giocose tonalità rivelanti chicche di malinconica saggezza, dei sorprendenti aforismi – si capisce che le fiabe, queste fiabe, hanno i desideri (proprio i loro!). E li custodiscono, perché esse vivono e parlano al modo degli uomini, specialmente di quelli che non dimenticano mai di essere bambini: “certo io non posso risolvere tutti i problemi/ disse alla fine della storia la fiaba/ so che vorreste incontrarvi/ formare una sola roccia/ anziché stalattite e stalagmite/ e uscire dal buio di questa caverna/ la pazienza della goccia vi unirà/ ma la luce del sole/ quella vi sarà negata/ d’altronde cosa sarebbe la vita/ senza un sogno incompiuto?”.
Sono altrettanto viviparlano, pregano e agiscono - gli oggetti descritti dalla dell’Arte: il pigiama, i pantaloni, la collana, l’orologio; e davvero dilettevoli si mostrano gli animali, talora persino ammiccanti, con una sfumatura di sensualità, come la lumaca, che – “sotto l’insalata (…)” – confida di essere “un abito da sera”.
L’autrice affronta poi i quesiti più rilevanti della coscienza, mettendone in risalto le implicite, universali speranze – le conseguenti, tremende delusioni; molte sono le fiabe-poesie nelle quali parlano e agiscono la bellezza, l’amicizia, la salute, la vita, la verità – la pena, la guerra – l’invecchiamento, la malattia, il nulla, la morte: “un giorno la morte/ incontrò la vita/ si trovarono così vicine/ da non riconoscersi/ per un attimo/ furono tutt’uno/ fu così che nacque l’eternità”.
Ne scaturisce una serena, ma solida morale, un’estrosa, e sana pedagogia, in sintonia con il rigoroso surrealismo di Gianni Rodari, e – prima ancora – con l’indulgenza comprensiva e autorevole del Deamicisiano maestro Perboni, quello del prezioso libro Cuore: “le miserie del mondo/ si tenevano per mano/ per farsi compagnia/ chi con la veste lacera/ chi con un buco nel petto/ stanche di quel vivere/ senza sorrisi/ un giorno guardarono in alto/ in alto c’è sempre un trono/ con un re splendente/ il re c’era ma non poteva vederle/ sotto di lui un cielo pieno di nubi”.
Inoltre, la dell’Arte possiede una sua originale, complessa valenza profetica, evidente quando – con sonorità flebili, infantili, lentamente ossessive e perciò tanto più penetranti – denuncia le ingiustizie, le infamie, le crudeltà di questa nostra epoca, e scuote gli animi, li invita a riflettere, a fare critica, a promuovere comportamenti equi, improntati alla solidarietà: “il sorriso era capitato/ in una zona scura della terra/ smarrito nel labirinto/ del dolore e con lui l’uomo/ la risata che scorrazzava/ allegra come una gallina/ si mise d’accordo con il solletico/ fu tanto e tanto/ che l’uomo morì/ ma solo di risate”.
Una raccolta, I desideri della fiaba, da leggere e rileggere, per gustarvi la brillante maturità di chi, negli anni colmi di esperienza, è capace di rivolgersi ai piccoli e ai grandi con umiltà, tenerezza e determinazione, giacché – suggerisce, candida e maliziosa al tempo stesso, l’autrice – “(…) il muschio d’autunno è più dolce/ del fuoco dell’estate”. (Pubblicata in www.versanteripido.it/dellarte-recensione-desideri/1 gennaio 2015)




*Recensione di Adele Desideri a Rosa Elisa Giangoia, La vita restante (De Ferrari, 2014) pubblicata in ilgattocertosino.wordpress.com/2015/01/08/2982 , 1 gennaio 2015. 


associazione di esperienza e riflessione creativa a Genova – Federazione BombaCarta
RECENSIONE
gennaio 8, 2015 in Uncategorized Adele Desideri

Rosa Elisa Giangoia è poeta, narratrice e saggista. Studiosa di gastronomia letteraria, raffinata latinista – collabora alla redazione della rivista SATURA.
Nel 2014 ha pubblicato il testo teatrale Margaritae Animae Ascensio, e il suo secondo libro di poesie, La vita restante (Deferrari).
Quest’ultima opera indica, in primis, ciò che resta, nella memoria dell’autrice, dopo gli anni trascorsi assieme al marito, spentosi ormai da diverso tempo: “Certo, sarebbe più bello saperti/ dietro l’angolo della strada/ seduto su una panchina,/ ad aspettarmi./ Invece capiti nell’abbaglio/ di un lampo di sole/ che entra in casa inaspettato/ all’improvviso,/ forse per tenerti fuori dal tempo,/ ad un passo dal niente.” (pag. 32).
E restano - oltre la perdita – le sequenze lunghe dell’accettazione del dolore, dell’attesa, illuminata da una profonda fede, dalla certezza di un nuovo incontro nella dimensione dell’eternità, ove è solo pace e gioia infinita: “(…) sentiremo una forza sconosciuta/ di slancio verso il cielo./ (…)/ (…) la morte non ci farà più paura/ perché la vivremo insieme,/ non più tra le spine del cuore.” (pag. 34).
Una Presenza vicina e lontana, una Presenza-Assenza avvolge, in seguito, le immagini della sezione Vita, che della morte, in realtà, traccia il volto. Vita e morte così si intersecano, confliggono, e si chiariscono a vicenda, in un’onda di malinconico lucore che tracima – e salva dal gorgo risucchiante del nulla: “Non sappiamo quel che resterà/ quando con uno strappo lacerante,/ ma forse non doloroso,/ in un giorno qualunque,/ (…)/ in un momento imprevisto,/ ma certo non inatteso,/ sfilandosi dal viluppo del corpo,/ ognuno di noi ridisegnerà se stesso/ nell’immateriale purezza” (pag. 53).
Si sente forte il canto del Qohelet, l’oscillare dell’uomo religioso tra dubbi e bagliori di fiducia, mentre trema e si divincola nella ricerca, mai sazia, di Dio. Un canto reiterato, ostinato, commosso.
Giangoia riprende le tonalità dell’Ecclesiaste e le conferma sue, in un dettato autentico, sobrio, generoso di metafore tratte dal regno della natura e da quello dello spirito: “Soffro la nostalgia delle cose impossibili/ quando la polvere dell’assenza/ mi seppellisce l’anima” (pag. 58); “quando saranno cessati per sempre/ gli spasimi del quotidiano.” (pag. 54), “Svanirà la vanità del giorno/ e si dileguerà il rimorso della notte:/ nello sposalizio con l’eterno inseguiremo/ la conferma della vita oltre la vita.” (pag. 54).
La sezione Memorie ritorna, con maggiore serenità, al passato remoto – al padre e alla madre – alla vicenda personale di inevitabili lutti, che diviene saggia e quieta tenerezza, letta attraverso i volti impressi sulla forse sbiadita fotografia, custodita in un cassetto; diviene gentilezza d’animo, capace di provare sentimenti acri – e di godere, però, delle piccole ordinarie fortune. Almeno nei misteri del sogno si avvera, allora, la comunione spirituale tra chi è ancora in viaggio e chi ha terminato il proprio cammino sulla terra: “casualmente senza urgenza/ e senza ragioni/ possiamo incontrarci nel sogno./ Un’orfica smisurata/ distesa bianca d’asfodeli/ in un abisso di silenzio/ ci separa/ nell’immensità del rimpianto./ Ci si può ancora parlare,/ in un linguaggio tutto nostro:/ serve per resistere/ nella speranza,/ senza troppo soffrire.” (pag. 67).
Si differenziano, inoltre, rispetto ai temi fin’ora trattati, la prima e l’ultima sezione del libro, che si apre con Emigrante, e si chiude con Femminile.
Nel poemetto Emigrante Giangoia racconta la storia di Salî. Il 13 aprile del 1903 – “(…) insieme a tanti altri, di molti paesi,/ che trascinavano sfasciati bagagli di pena” (pag. 14) – Salî sbarca a New York, dal piroscafo Equità, per tuffarsi in una desolata avventura, in un mescolio di lingue, dialetti, costumi, cibi sconosciuti – ricco solo di povertà e di nostalgia nei confronti del paese natìo: “Mise un lucchetto fatto sulla misura del cuore/ ai sentimenti che ritmavano il sangue” (pag. 15).
Lo stile è graffiante e insolito, per Giangoia – scrittrice di temperata formazione classica – qui molto abile nel ricostruire, con impietoso realismo, i più cupi anfratti di New York – di Little Italy – all’inizio del Novecento; il lavoro duro dell’umile manovalanza, il clima dei bordelli, delle sale da gioco, dei dormitori: “Alla sera sembrava sempre/ d’attraversare la soglia del mondo/ per potersi addormentare.” (pag. 22).
Si avverte, nei versi di Emigrante, l’eco delle calde melodie tradizionali partenopee (Te voglio bene assaje), fuso con il ritmo sincopato del Foxtrot, con il timbro multiforme e imprevedibile del Jazz. E tuttavia la musicista – la poeta, Giangoia – è cresciuta forse nelle atmosfere di Bach, di Mozart, di Beethoven. Al ritorno in Italia – quando “Salî stupito camminava per le vie/ che non credeva più di riconoscere,/ mentre l’occhio si posava su vetrine/ piene di cose che non sapeva di aver perso.” (pag. 28) – i bizzarri, frizzanti suoni della stranita America lasciano spazio, infatti, a un leggendario adagio per pianoforte e archi, nel quale si annida remissiva la delusione: “Capì (…)/ che aveva dovuto perdersi nell’ignoto/ per potersi un giorno ritrovare,/ ma che ci sarebbe voluta tutta la vita restante/ per fare un rapporto dettagliato/ che desse senso e valore/ a quanto aveva vissuto/ nella pienezza dell’altra parte del mondo.” (pag. 29).
In Femminile Giangoia narra – con un respiro ampio, epico, magistrale – il volo nuziale dell’ape regina: “si univano in volo,/ precipitavano insieme soffiati dal vento./ Ed era tra i due una sola dolcezza,/ nell’inconsapevole ansia della morte./ Poi calarono giù pian piano,/ stretti e tremanti,/ ad ali chiuse,/ quasi due gocce di miele/ in un’unica goccia./ Quando la regina aprì gli occhi/ vide l’eletto ormai spento./ Restò sola nello spazio immenso./ Smarrita, ritrovò l’olmo, i tigli vicini,/ il roseto fiorito di bianco,/ il rosmarino acceso d’azzurro./ Per terra, tra due fili d’erba,/ giaceva qualcosa che era stato qualcuno.” (pag. 73).
Sono versi incisivi, segnati da una sensibilità attenta ai minimi dettagli del segreto fluire dell’universo, da un delicato e struggente erotismo, da un’elegante istanza femminile.
Poliedrica ma coerente, Giangoia ribadisce, infine, una lettura metafisica della restante vita: “Quando alla sera il giorno trascorso/ è poca cenere in mano,/ soffro il peso della verità./ (…)/ Verrà la notte,/ madre dei poeti,/ a prendermi nel suo grembo/ a regalarmi un suono,/ una parola felice,/ un’immagine di vita.” (pag. 62).
La notte, la madre, il grembo, il suono, la parola.
La donna, il suo complemento.
Il Dio della Bibbia: padre e madre.
Tutto converge, tutto qui trova precise, armoniche forme e cadenze, tutto s’innalza lungo e oltre quel cielo che è confine – e limite – per l’umano sentire.



*Saggio di Gandolfo Cascio su Juan Rodolfo Wilcock, Italienisches Liederbuch, 34 poesie d’amore (Rizzoli 1974, Adelphi 1993)) e Adele Desideri, Stelle a Merzò (Moretti&Vitali 2013), in rubrica I poeti: letti e riletti, in Notiziario, Scuola Dante Alighieri, Utrecht (Olanda), marzo 2015. 






*Pietruccio Montalbetti, Elia Perboni, Settanta a settemila www.castelvecchieditore.com/settanta-a-settemila, Una sfida senza limiti d'età, prefazione di Moni Ovadia, Ultra, 2014

Pietruccio Montalbetti, per anni collaboratore dell'amico Lucio Battisti, è il fondatore dei Dik Dik, interpreti di grandi successi quali Sognando la California, L'isola di Wight, Viaggio di un poeta, Il primo giorno di primavera.
Pietruccio Montalbetti (…) rivela il suo lato più intimo e sconosciuto. Da tempo, infatti, viaggia da solo, lasciandosi alle spalle gli impegni di lavoro, quelli familiari, la tecnologia e le comodità della vita quotidiana, per spingersi verso mete lontane, curioso degli angoli del mondo distanti dalla nostra civiltà, di cime che toccano il cielo. Questo è il racconto della sua scalata in solitaria sulla montagna più alta della catena delle Ande: l’Aconcagua. Ma a rendere ancora più preziosa questa narrazione così intensa c’è l’elemento anagrafico: nel 2011, quando Pietruccio intraprende il viaggio, ha 70 anni. E il numero sette è anche quello dei settemila metri dell’Aconcagua. In queste pagine si nascondono le domande che un uomo pone a se stesso sulle motivazioni più profonde della vita. Interrogativi che suonano forti nella mente quando la solitudine ti avvolge e la sfida è quella dei tuoi pensieri. Il cammino nella natura ostile e selvaggia diventa metafora del percorso della vita. Mentre racconta ciò che vede e sente – sulla pelle il vento freddo, il cuore in gola per la fatica e lo spettro della morte che segue ogni passo – Pietruccio guarda anche alla sua storia umana, alla ricerca di risposte a quell’inquietudine che spesso lo ha accompagnato. E forse una prima risposta è proprio nella grande bellezza che si mostra se la cerchi. Come una cima che si lascia accarezzare per una manciata di minuti. Dalla quarta di copertina di Elia Perboni


“non tutti gli angeli abitano in cielo; ce ne sono anche alcuni, non meno gloriosi dei primi, che vivono, chissà perché, in esilio” (Paolo Lagazzi, Light stone, Passigli 2014)


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