Carla De Angelis I giorni e le strade
Fara, 2014
recensione di Giorgio Linguaglossa
La ricerca di una configurazione
del sistema iconico nella poesia di Carla De Angelis coincide con la presa
d’atto della scomparsa del «mondo» in cui il poeta era ancora inserito in una
comunità e la comunicabilità del suo «messaggio» non era affatto posta in
predicato, era la naturale conseguenza di una comunità linguistica.
Retrocedendo alla impostazione «classica» (diciamo alla scrittura lineare di
una Antonia Pozzi), Carla De Angelis fa due passi indietro per compiere un
passo in avanti. L’autrice usa il compasso metrico e il respiro dell’analogia
là dove la dismetria invasiva delle scritture contemporanee ha desertificato il
linguaggio poetico. Allora, il risultato di una poesia «descrittiva» è la
logica conseguenza di una impostazione di equidistanza tra l’oggetto e il
soggetto e di retrogredienza ad
una impostazione pre-sperimentale con spunti geografici e paesaggistici di
«gusto squisito»:
Vorrei scrivere una bella poesia
poi addormentarmi in questa notte d’agosto
“laudato si’, mi Signore per sor’Acqua
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta”
che scenda a curare le
Ferite del troppo sole, come il canto
del fiume per il mare
non come un torrente che travolge uomini e cose
non come un torrente che travolge uomini e case
Siamo ormai lontani dalla
lezione di un Franco Fortini il quale sottoponeva il «gusto squisito» ad una
spietata critica marxista, oggi sembra che la poesia recente abbia messo da
parte la lezione fortiniana, siano, insomma, nipoti rimasti celibi della grande
tradizione critica. Carla De Angelis parte da una premessa: è il soggetto che
deve raggiungere la contemplazione e, tramite essa, l'oggetto. Fatto sta che
quegli oggetti ormai immessi nel circuito della fluidificazione universale,
sono di difficile reperibilità e di ardua riconoscibilità e la «poesia» non è
un luogo privilegiato che abbia dimora in un lake district al riparo dei venti e delle intemperie.
La oggettistica di questa poesia
ha questo di vero: che tenendo ben fermi gli oggetti entro il campo visivo
della campitura metrica anche il linguaggio poetico può beneficiare di una
impostazione di tipo narrativo.
Aspetto il vento,
se bussa
non chiudo porte e finestre non
spio tra i vetri
lo faccio entrare
si accomodi sul divano, gli dico,
mi siedo accanto
lo insinuo nei cassetti
un soffio sotto i mobili
in cantina fra fantasie e speranze
fra bene e male
C’è, sì, sotto la
fluidificazione dei versi una inquietudine che trapela appena, ben dissimulata,
al di sotto della superficie, come una velata increspatura. Come l’analogia
tende alla fluidificazione sintattica e stilistica, così anche il soggetto è
sottoposto alle medesime tensioni della fluidificazione «esterna». È questo il
problema con cui Carla De Angelis si trova a dover fare i conti, e non è un
problema da poco.
Alla fin fine, un problema
apparentemente secondario ed astruso come quello del chi è l’«interlocutore»
(che l’autrice fa coincidere con il «tu» del lettore), coinvolge e trascina con
sé quello ben più complicato della configurazione del sistema
simbolico-analogico. Il «tu» intimistico e amicale che incontriamo nella poesia
della De Angelis è ancora «lirico», una zattera «lirica» priva dei gommoni e
dei salvagente delle scritture post-liriche più scaltrite e culturalmente
avvedute ma forse è anche più autentico e spontaneo (se di spontaneità si può
parlare con qualche avvedutezza in termini di poesia). È una scrittura tutta
«intima» e «interna» al quadro della intimità (violata) appena percettibile,
fatta in punta di stilo, sottile fino ad assottigliarsi:
Devo scrivere
una poesia
l'ho
promesso
sul bene
sul male
sulla
morale
Aspetto
il vento,
se bussa
non
chiudo porte e finestre non spio tra i vetri
lo
faccio entrare
si
accomodi sul divano
gli dico
mi siedo
accanto
lo
insinuo nei cassetti
un
soffio sotto i mobili
in
cantina fra fantasie e speranze
fra bene
e male
Tutta
interna ad una campitura domestica la scrittura della De Angelis incede a
rallentatore, indugia su alcuni particolari del «quadro», resta nell'ambito del
recinto lirico quale hortus conclusus,
spazio esentasse.
Se la
forma di abolizione del mondo
quaternario, cibernetico e combinatorio, è l’implosione, all’interno della
minima entropia dei microcosmi affettivi entro i quali questa poesia si muove, a
ciò corrisponde l’assottigliamento dei flussi e delle maree «interne» ed
«intime», così consuete e familiari.
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