venerdì 4 aprile 2014

La lingua inquieta di Fulvio Segato: cinque inediti per Farapoesia

Una grande fortuna
 

Che fortuna abbiano noi 
che possiamo guardarci e cercarci
con gli occhi, camminare lenti
fra l'intrigo di siepi o correre fin giù
giù dalla collina al mare vedendolo
il mare sentire lo strascico dell'onda
gonfia che viene a riva
– i due sandali vecchi, là, impiantati nella sabbia
che fortuna noi abbiamo
quando di queste cose parlarci
e che fortuna la rabbia, l'odio per
l'ingiusto e il movimento della mano
tutta protesa con i suoi tendini tirati
le ossa incastrate una nell'altra senza attrito
per afferrare, accarezzare, accogliere
con un grande gesto aereo in questa casa.
Quanta fortuna la nostra
e perché restiamo qui muti
quando esplode questa primavera
che contrasta il primato dell'inverno
– perché muti, curvi e dolenti
con le dita intrecciate nell'attesa
se tutto è scoppiato ora e
il colore ha dipinto le orme nella neve,
le orme di chi fino alla porta
è venuto, si è fermato,
ed è tornato indietro
senza bussare
– sparsi come siamo nell'attesa.



Pioggia

È la pioggia quando batte
che ti sveglia alla notte,
così pensi ad una certificazione,
ad una scritta su un vecchio documento
o un graffio fatto con la punta
di un chiodo su un sasso o col temperino
su un tronco tenero. Una tua iniziale,
che ti spieghi chi sei e cosa
stai facendo in quel letto al buio,
gli occhi aperti al soffitto che non vedi.
E poi pensi alle moltitudini che
tutto intorno sono, anche loro
parti uniche e insonni, una famiglia
allargata, da radice a chioma
da radice alla lancia delle foglie.
A tutte le contraddizioni
e alla loro vastità.
È la pioggia che ti sveglia quando
batte, la neve no,
la neve ti copre
e ti lascia dormire.



La scienza

Che ne sa la scienza
del mio destino, della durezza
del passo seguente, del muto
che sigilla il labbro e della mano
senza forza che lascia a terra
l'utensile dalla testa di ferro.
E che ne sa
del destino dei voli incrociati
di vespe e merli, dell'odore
micidiale delle corolle e delle spore
che una tirata di vento porta alte
ed è tutto il cielo giallo, intenso.
E che ne sa di come appoggio
la mia testa sulla tua, delle impronte
delle dita che a volte coincidono
di quel leggero fremere, fermarsi
e sedersi sfrattati su una sedia
fuori dalla porta di casa,
la curva del midollo che calca
quella più lontana del monte.
Del mio vecchio compagno
che non vedo da anni
ed era l'unico per dire queste
due parole, o se rimarranno appese
e inusate per sempre e sarà un altro
pezzo di silenzio. E che sa
di come abbiamo a volte il
destino fra le mani
e non sappiamo che fare.



L'infinito esilio

Sarà lungo il periodo
di questo mio esilio,
infinito il tempo del nostro
esilio e le piante scavalcheranno
gli argini allungando le gambe
entreranno nelle nostre case
coi loro tegumenti, con le gemme
fameliche mai sazie.
Sarà lungo il tempo
del nostro esilio, oppure
porteremo la sabbia là dove
cara la foresta partorisce
ogni giorno – ogni minuto
col verde ringrazia il cielo.
Pianteremo le nostre tende e
germineremo come funghi sul tronco
avvelenando l'acqua nei bicchieri
confinando i cetacei, tutti, nello
scuro carnoso degli abissi.
E le nostre genti se ne andranno
spariranno nel niente e il mondo
sarà dei fantasmi. Sarà infinito
il tempo del nostro esilio –
forse la Terra sazia di natura
e uomini non girerà più,
rimarrà come punto immobile
nell'universo che vediamo da qui.
Forse questo accadrà, però
ora siediti al mio fianco
stringi poco la mia mano e
dell'infinito esilio parliamo.



Lingua inquieta

La lingua inquieta si nutre
delle ruggini e degli affronti,
del rosso e del bianco,
delle parole a metà che ancora
sono nell’aria incompiute,
di quelle pesanti bevute dalla terra.

La lingua inquieta sa il tuo nome,
ha i tuoi capelli del colore di
una fiamma spenta, i nodi degli
anni scivolati nei tubi
della nostra storia che ci ha
passati senza metterci nei suoi progetti.

Si nutre la lingua inquieta
della stanchezza dell’uomo sfinito
della donna insonne che teme
il mattino, del ragazzo che calpesta
il giro delle strade avvilite, le mani
povere di gesti strette a pugno.

E si nutre di silenzi, delle grida alte
degli uccelli a caccia, dello scroscio
della pioggia che cancella e porta
al mare, dell’impazienza di raccontare
della bellezza che inquieta s’ostina

Fulvio SegatoFulvio Segato è nato a Trieste nel 1959, città dove lavora in una scuola pubblica. Negli anni Ottanta ha pubblicato due raccolte poetiche: I canti della Fenice (Nuovi Autori 1984) e Io Narciso (Ibiskos 1985, anche ne I poeti contemporanei 87, a cura di Elio Pecora, ed. Pagine) Nel 2013 è uscita per le Edizioni Helicon la silloge Vocativi in eco (con nota introduttiva di Silvio Ramat), quale premio Casentino 2012. È in preparazione per Edizioni Progetto Cultura una raccolta dal titolo Cadono i cormorani. Ha conseguito riconoscimenti
in concorsi letterari sia in poesia che in prosa. Ha vinto il concorso Faraexcelsior 2013 con La consuetudine dei frantumi. Per contatti: fulvio08@libero.it

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