giovedì 30 gennaio 2014
Una lettura de La consuetudine dei frantumi di Fulvio Segato
di Luigi Cataldi
Baudelaire aveva già compreso che il mondo era andato in pezzi. Noi spesso ci illudiamo del contrario, ma, paradossalmente, il nostro universo, quanto più globale è divenuto, tanto più è risultato scisso, sconquassato e
sgretolato. Così, se all’apparenza siamo in contatto diretto con ciò che accade
dall’altra parte del globo, nella realtà, da lungo tempo abbiamo smarrito qualsiasi comune concezione del mondo, qualsiasi legame, qualsiasi
senso di fratellanza e coabitiamo un cosmo di cui spesso non comprendiamo il senso. Basta guardarsi attorno per accorgerci che ciò che in epoche passate ci faceva sentire di essere parte comune della natura e dell’umanità, almeno di quella a noi contigua, non esiste più. Si può dunque dire
che, nonostante le apparenze, il nostro universo esistenziale sia andato in frantumi.
E i frantumi non sono frammenti. Un ‘frammento’ è ancora parte di un tutto di cui si ha consapevolezza e che caratterizza la poesia occidentale moderna dalla sua nascita o, almeno, dai Frammenti di cose volgari petrarcheschi. Al contrario il “frantume” è scheggia che ha smarrito ogni legame con l’oggetto intero da cui proviene, un oggetto che non potrebbe in alcun modo essere ricomposto o ricostruito. È ciò che viene dopo una grande
esplosione o dopo un naufragio, cioè, dopo qualcosa di irreparabile. Si può dire che il mondo attuale, almeno a partire dalla Grande Guerra, che simbolicamente e storicamente può rappresentare una simile esplosione,
sia irreparabile.
Ma queste sono speculazioni, buone, forse, per gli storici o per i filosofi.
Per Fulvio Segato, invece, che l’esistenza stessa sia in frantumi, non è oggetto di speculazione, ma dato di fatto, evidente e indiscutibile, frutto dell’esperienza quotidiana e, perciò, punto di partenza della sua lirica. E, perché la nostra apocalittica premessa non risulti fuorviante, va subito aggiunto che i frantumi poetici di Segato non offrono un’immagine né apocalittica né pessimistica, poiché non servono a rievocare la catastrofe che li ha prodotti o i drammi che ne sono seguiti. Essi sono l’unica testimonianza
ancora viva dell’interezza perduta, sono quel che rimane dell’autenticità dell’esistenza. Avere consuetudine dei frantumi significa dunque non aver perso il desiderio di cercare (senza la presunzione di trovare, per carità!) questa autenticità. Dunque non la superficie levigata degli edifici del nostro tempo è l’oggetto della poesia di Segato, ma, per esempio, la crepa che si apre in una casa, una crepa familiare al punto che inquietante appare il risanamento della parete, come accade nella prima lirica della sezione
Lettere che ti scrivo.
La crepa che vi campeggia somiglia a un rampicante, che dalla terra “non prende nulla, nulla / lascia nel suo passare”. È staccata da terra, dalla sua origine perduta; è protesa verso il tetto lontano che non sa raggiungere. È sospesa, come la nostra esistenza. Degli uomini sono lì per
chiuderla. La rete che impiegano evoca metaforicamente una rete da pesca, che reca, “fra maglia e maglia ”, “piccoli pesci incastrati ”, i cui occhi guardano il mare che da lì non si vede . Si fondono in un’unica allegoria l’immagine reale (la rete degli operai che serve per consolidare il muro)
e quella metaforica (la rete da pesca con le sue prede), che risulta la parte più concreta e tangibile, perché è grazie ad essa che comprendiamo e veramente ‘vediamo’ ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi: il risanamento del muro, cioè la distruzione del frantume, cancella la traccia residua della vita autentica e ci rinchiude nella nostra prigione dove non si sente quel profumo di terra buona che “ha la terra quando piove un poco” “e tisembra di camminare nel niente” , ma è proprio quel “ niente” , quella crepa, che è traccia di un intero universo: “ le persone che non ci sono, / le donne che sono andate e anche i ragazzi, andati in una parte sconosciuta del cosmo” .
È un atteggiamento che evoca il Montale degli Ossi di seppia, sia per l’idea che la realtà contingente è una sorta di prigione dalla quale il poeta va cercando un varco “che finalmente ci metta nel mezzo di una verità” (I limoni), un varco che sembra intravvedersi solo a “scaglie ”, sia per la poetica del ricordo, che fa pensare a Cigola la carrucola nel pozzo, dove però delle due componenti del ricordo, quella che riporta in vita ciò che è scomparso e che dunque unisce e quella che ne rivela l’irrevocabile distanza e che
dunque divide, è la seconda a prevalere. Accade il contrario nei Frantumi.
L’ “odore scavato” che apre la raccolta di Segato, passato per “strade rioni / salite di porfido disassato” , “mura” , “tetti” , “ pozze” dà al poeta, quando giunge fino a lui, “l’illusione del volo ”. È “ scavato ”, ma scava, cioè fa rivivere qualcosa che sembrava sepolto, prima di “ bussare alla porta accanto ”. Il suo passaggio affratella, visto che dall’io immediatamente si passa al noi, seguendo una direzione che va dal concreto all’astratto, cioè dalla petrosità della prima parte (che acquista consistenza materica grazie alle frequenti allitterazioni ed alla metrica estremamente frastagliata) all’eterea leggerezza della seconda e, viceversa, dall’indefinito, visto che inizialmente è solo un “ odore” , al definito, poiché si rivela infine come
“profumo di viole” . Il suo percorso va dall’esterno della materia all’interno dell’io del poeta e di quello del lettore, evocato dal plurale dei versi finali. Il suo volo è tanto nello spazio quanto nel tempo, anzi è tale da produrre una sorta di contraddizione nel tempo: è un profumo, che, nel presente, “ci siamo portati dietro” “tanto tempo fa” .
Qui, come accade al fanciullino musico di Pascoli, è evidente che il poeta “ non trascina, ma è trascinato” : da un odore come nel caso appena visto, da un oggetto, la foto per esempio di uno sconosciuto (Ho questa foto di un uomo, che si appoggia sul manico), da un gesto, come quello “del direttore / del coro che chiude a pugno la mano” (D’improvviso tutto può accadere), dai frammenti di discorsi ed immagini percepiti sul tram (Leggere qualche riga), da uno scambio di persona (Lo scambio).
In quest’ultimo caso il disordine causato dall’errore (l’esser stato scambiato per un altro) produce un paradosso esistenziale che conduce l’io lirico a vedersi estraneo nel mondo non suo dell’altro e al tempo stesso a guardare al proprio mondo con gli occhi di uno sconosciuto. Lo scambio, nonostante il suo ripiegamento introspettivo, invita anche il lettore a riflettere sull’estraneità di ciò che ci è familiare e sul quale abbiamo steso una patina di insensibilità.
Senso di estraneità e paradosso temporale ricompaiono nella quarta lirica della sezione Lettere che ti scrivo. La lettera è indirizzata ad un destinatario che è sentito come intimo e coetaneo del poeta. Al “vedi” d’esordio che imposta un registro fraterno, si associa quasi ovunque il “noi” dietro cui si può intravvedere un’ulteriore intimità con il lettore, con qualsiasi lettore. Vi è poi lo sdoppiamento del poeta stesso che compare come era a cinque anni e come è oggi. Si tratta di un ricordo di infanzia in cui il passato ed il presente si fondono in un’unica dimensione. Ci si trova in una sorta di non luogo, forse la casa attuale del poeta, guardata però, con estraneità, con gli occhi dell’io dei cinque anni, il quale, anche se privo “di idiomi” , è “senza nessuna colpa e ancora forse / nessun rimorso” , innocente, “perché tutto / deve ancora cominciare ”. Innocenti sono anche le “ creature minime” , che nel vuoto dei buchi dei tronchi si nascondono e si sfamano, perché appartengono al mondo naturale impastato “di viola e bruno e ruggine ”, ma “che è cosa senza parola, senza sillabe o versi ”. Per l’uomo invece, l’assenza di parole, cioè il vuoto di poesia, genera, quello sì, rimorso. È stato quel vuoto ad aver costruito quella che non è più nemmeno una casa, ma un “ posto / dove siamo, senza eredi / così spogli” , in cui si abita, ma dove nemmeno il letto, i vestiti piegati e il libro aperto ci appartengono, un luogo di nessuno. E “quel bianco che resta, quel bianco / che acceca è quello che non abbiamo detto” , poiché noi “non siamo senza dirci, chiamarci, nominando” . Affermazione, perentoria, urlata quasi, dell’impossibilità di esistere senza la poesia, che dunque non è un modo di scrivere, ma un modo di vivere.
È dunque ciò che è estraneo a “quel bianco” , che spesso affiora in forma di apparenza o di frantume, insomma ciò che ci appare “ ignoto” a salvarci. Nella poesia che chiude la raccolta, L’ignoto dietro la porta, esso ci attende appena fuori l’uscio di casa, “mansueto ” “come animale / con lo sguardo che interroga / e non vuole nulla” e si palesa per la strada, fra le persone che si conoscono appena o non si conoscono affatto, con il loro mistero. Anche qui la parola acquista un tono plurale che si scioglie infine nel “tu” di un’esortazione accorata, rivolta al lettore, alla poesia, cioè alla vita:
Lo sentite anche voi, anche tu lo senti
quel respiro, quell’attimo, quella cosa?
quella che poi sembra diventare tua,
sembra diventare nostra
la cosa d’abitudine, come petalo
schiacciato che fu fiore,
anche odore del fiore, il suo gambo,
la consuetudine dei suoi frantumi.
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