mercoledì 20 febbraio 2013

Su Sparire in silenzio ritrovando il vento delle strade di Bruno Bartoletti

recensione di Franco Casadei


Descrive l’attraversata di una vita l’ultimo libro di  di Bruno Bartoletti, maturo poeta romagnolo di Sogliano al Rubicone, paese in provincia di Forlì-Cesena (Sparire in silenzio ritrovandoil vento delle strade, Youcanprint, Tricase (LE), 2012, pp. 122, € 12).

Un percorso di riflessione venato di malinconia e di rimpianti, ma anche di gratitudine per i luoghi, i volti, gli accadimenti (“Nella notte il risveglio sa di terre lontane, /di amici d’infanzia…”) che hanno scandito gli anni vissuti nella sua Montetiffi, piccola frazione sulle colline romagnole, dominata da una splendida e antica pieve (“… qui ho trascorso la parte mia migliore/ dove la vita si gioca avara con quel poco / che ci lascia una pillola di luce”).

Il suo cuore e le sue memorie sono lì, in quel vento e in quei viali sterrati in mezzo ai campi, in quelle stanze umili che l’hanno visto bimbo, ragazzo, giovane studente e maturo insegnante di lettere (“Eravamo noi poveri, ma era bello/ ritrovarsi la sera e ragionare/ la sera che portava odore di amicizie/ e di favole ancora da scoprire /… dove le donne passavano, le gonne / che il vento dipingeva controluce”).

Il titolo - Sparire in silenzio, ritrovando il vento delle strade – ci introduce alla svolgimento  di un’opera che rappresenta come un consuntivo di un lungo tragitto che si avvicina al limitare dell’avventura umana. E la fa da padrone un senso di sperdimento del cuore al constatare che ormai se ne sono andati tutti e “la strada è più fredda ogni mattina”. E “La Pietra ha una chiesa, tre case, una piccola / scuola ridotta a pollaio /… l’ultimo addio è questo abbandono…”. “È vuota la strada, nessuno che passi, / che ascolti, che chiami…”.  

Sembra prevalere, nella prima parte dell’opera, una visione scettica  dell’esistenza che deve fare i conti con il declino: “Arrivano i primi malanni. Li senti/ sulle spalle, li senti arrivare con gli anni / dopo i sessanta /… la mattina lo specchio dipana segnali d’autunno /… Rimani in silenzio, nel tempo, fissandoti piano / quel volto che forse sarebbe di un altro”. E ancora: “Si comincia così, dimentichi un nome, lasci / una cosa a metà, torni a mani vuote e non ricordi / ciò che cercavi /… Aspetti soltanto che l’ultima luce / di un vecchio lampione si beva la strada. / fa freddo là fuori, fa freddo e si muore”. E anche:”sulla parete lunghe mani di memorie/ e ancora silenzio, allora /… ti prendi la testa fra le mani / e piangi /… e non resta che aspettare”.

Poi, gradualmente, da A mia madre in poi, nel dipanarsi dei testi della parte centrale dell’opera, la poesia di Bruno Bartoletti si fa elegia più lieve, meno angosciante e spuntano elementi di tenerezza e di velata speranza. Cambia anche la tonalità del verso, che si avverte quasi rasserenante. Si ritrova, a mio parere, la poesia migliore dell’autore, che si lascia andare ad un respiro meno controllato dalla volontà di sostenere una tesi o una condizione umana senza significanza e destino. Troviamo infatti: “Se dovessi morire io prima di te,/ negli anni dolcemente invecchierai, / finché la sera / te ne starai in un angolo assopita, / e leggerai queste mie parole. Sarò io a darti la mia voce, / come non feci mai, / ricordando il tempo che ti ho lasciata sola”, E “tutto sarà presenza, / e sentirai in un soffio ancora un’ombra / l’attesa che sarà per nuovi giorni”. Comincia a farsi varco un atteggiamento, fievole se vogliamo, di aspettativa possibile che “l’ultimo addio” non sia necessariamente la morte di tutto, “sull’acqua solo un nome e la sua croce”. “Una piccola luce”.
E il tema del dubbio viene come messo in un angolo dal poeta. Il dubbio, questo tarlo che, se deificato, corrode l’anima invece di avvicinare alla verità, come si presume. Tormenta l’anima e non dà spazio a quella struttura dell’umano che il linguaggio biblico chiama cuore, cioè il vero fattore di conoscenza per quanto riguarda l’umano. La ragione va usata tutta, ma se non riconosciamo che c’è qualcosa che la supera, significa che non abbiamo rispetto per la ragione stessa, come ci richiama Shakespeare nell’Amleto: “Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante non ne sogni la tua filosofia”.

E si coglie che questa disposizione d’animo di Bruno Bartoletti lo libera dai lacciuoli razionalistici che frenano il respiro del verso. Questo, credo, il motivo per cui le poesie della parte centrale del libro bandiscono la paura, non temono l’azzardo del volo e, sciolti gli ormeggi, di lasciare il porto.
E allora troviamo versi leggeri che si offrono alla lettura come una consolazione: “Se poi quel giorno tu non mi trovassi, / vieni ancora a cercarmi in altri luoghi, / da qualche parte io ti aspetterò”. E “Prendimi terra, annegami, fammi tesoro/ di altre forme, accoglimi non già morente,/ nuovo per altre immensità, per altre vita”. E poi: “Saperti ancora ferma in riva al mare / mi dona questa eterna giovinezza / il senso di un eterno raccontare”.

Il poeta chiede di andarsene in silenzio, lasciando alla sola voce del vento di ripercorrere gli angoli delle strade di quei luoghi che l’hanno visto spettatore e protagonista di un lungo e intenso tratto di vita.

Bruno Bartoletti ci fa ancora una volta il regalo di un’opera corposa, meditata, risultato di una vita ricca di  esperienze e di letture, tante e di altissima qualità.  E di questo occorre essergli grato.

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