mercoledì 30 gennaio 2013

Il canto dell’alloro di Gerarda Pascarella


Cooperativa Universitaria Editrice Studi, Fisciano (SA), 2012


recensione di Vincenzo D'Alessio

Il canto dell’alloro, della poeta Gerarda Pascarella, costituisce la prima raccolta pubblica di versi dopo l’esperienza avuta in vari concorsi letterari nazionali. La premura di dare alle stampe una buona quantità di opere è dettata dalla necessità di forgiare la propria scrittura, di avvicinarsi al pubblico, di interagire con quel mondo interiore che si agita tra ricordi, avvenimenti, dolori, poche gioie: paesaggio intimo a confronto con il lettore.

Scrive nella intensa prefazione alla presente raccolta Carlangelo Mauro raccolta: “La maturazione dell’io, che si proietta nel tempo, è sempre inseguita (…). L’alternanza tra il frutto maturato al calore del sentimento e il ramo secco o l’aridità interiore è un po’ uno dei momenti forti della poesia di Gerarda, anzi può essere metafora dello stesso tessuto poetico, tra momenti di più o meno riuscita creazione artistica” (pag. 9). L’Autrice è alla ricerca dell’eternità misurata tra fede e ricognizioni giornaliere del vissuto. La necessità del rifiuto delle apparenze degli uomini, dei luoghi comuni e il costante dialogo con l’Io interiore, l’anima del mondo, che partecipa al paesaggio, alla sincera vocazione dell’avvicinarsi alla luce del Vero.

La poesia eponima della raccolta raccoglie bene questo dilemma:

“(…) dormire lune placide

Aver dei primi all’oltre

l’iridescente varco

Del mio, il canto

sui passi dell’alloro” (pag. 39)

Avvicinarsi alla Verità attraverso la fede e la ricerca, il più possibile, per rimandare al verso la sete di continuare ad esistere: come l’alloro sempreverde. Il senso della protezione dai mali del mondo, dalle sofferenze che attanagliano il corpo, trovano senso nei versi della poesia Avrei voluto (pag. 120):

“Avrei voluto un focolare

che si stringesse attorno

con la sua brace attiva

a illuminare

l’incedere nel mondo”


Molti sono i richiami agli avvenimenti contemporanei, alla sorte dei meno abbienti, alle esigenze del lavoro scolastico, alla figura paterna, al paesaggio irpino che si allinea con quello interiore sotto una luce solare a riscopre angoli e ricordi. Belli sono i passaggi dedicati alla memoria personale come nella poesia In kermesse:

“(…) Ne hai fatta di strada

da quando avvampavi

sferzata

dai saltelli di corda

o sentivi il fruscio

dei lunghi abiti neri

passarti di dosso

Dove sono

le sedie impagliate

le coperte migliori

gettate devote

sui balconi pudichi

i gradini di marmo

sugli usci ben spalancati

e l’alloro

l’alloro cascante

al di qua del muro di cinta?”

Una corsa in avanti fermata bruscamente dall’industrializzazione, dall’invasione dei media nelle case, nelle famiglie, la scomparsa della “devozione” vista oggi come debolezza verso un Dio che ruggisce ogni giorno nelle strade, nei cieli, sottoterra, negli occhi e nelle menti dei giovani avvinti dalle play station, dagli i-pad, dal meccanismo perverso del consumismo sfrenato dei mercati? Non c’è più la semplicità di chi stendeva le più belle coperte al passare del “Santissimo Sacramento” per le strade del paese. Non c’è più la forza interiore di sorridere all’altro che ha sul volto la morte che l’accompagna per le malattie del secolo. La solidarietà è per pochi, visti nella società contemporanea come dei deboli.

Gerarda, quella vera, è rimasta nel profumo dell’alloro “al di qua del muro di cinta” mentre la città la divora e la disorienta. Le risposte attendono ed affiorano nei versi. Nel silenzio, nel calore dell’estate che si vorrebbe onnipresente. Alla fine emerge la considerazione di maggior valore dell’intera raccolta, della poeta:

“Ho dovuto chiudere gli occhi

Per vederti qual eri” (pag. 101)

Per sognare, per generare poesia, c’è bisogno ancora oggi di chiudere gli occhi esterni e riaprirli nella solitudine del “fare” versi per sé stessi e per chi ascolta.

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