Bruno BARTOLETTI, Sparire in silenzio ritrovando il vento delle strade, Youcanprint, Tricase (LE),
2012.
Leggendo
e rileggendo (la poesia non si fa sorprendere prima di una attenta rilettura)
questo libro, ci si rende conto come la sua poesia sia coerente espressione di
un’umanità piena, intensa, provvista di un afflato etico e cosciente di sé al
punto che senza tale espressione si sentirebbe dimezzata o quanto meno carente
di qualcosa di fondamentale. Il titolo fornisce già una delle tante possibili
chiavi di lettura, se non la migliore sicuramente quella più immediata. Vi si
intravede un destino di dissoluzione che si vuole affidare alla modalità del
silenzio, ma al contempo una tenace volontà di sopravvivenza nel ritrovamento
del “vento delle strade”. Ora, a mio avviso, morte (“sparire”), silenzio, vento e strada
sono quattro Leitmotiv intorno ai quali si possono raccogliere e in
qualche modo unificarsi i numerosi testi (in versi e in prosa poetica) di
questa silloge, anche perché essi s’intersecano spesso fondendosi più che
distinguendosi e finiscono per delineare un quadro interno/esterno ricco di
ombre inquietanti (“La strada in un vuoto grigiore di lampade / prolunga il silenzio
e il rumore dei passi”, p.46, vv.4-5).
Ad
un io cosciente di aver lungamente vissuto e di aver assistito alla scomparsa
di figure amiche o parentali si addicono i toni elegiaci, segnati dalla
sobrietà e dalla misura. Incessante è il lavorìo del pensiero alla ricerca del
senso ultimo di cose, vicende e persone; si tratta di un pensiero rammemorante
che proprio nella memoria trova un punto fermo, un ancoraggio stabile (“La memoria
sorregge le parole / e le nutre, dando a esse / il senso della vita, / la
radice di ogni verità”, p.77). Il
fraseggio, in cui si dispiega la “poesia-discorso” bartolettiana procede
scioltamente e rasenta la prosa ma
non vi confonde, anzitutto per l’attenta scansione versale e strofica ma
soprattutto per quell’attitudine analogica che porta alla luce accostamenti e
affinità insospettabili sotto un profilo meramente logico; con illuminazioni e
epifanie specie in certe clausole risentite, dove il ritmo si fa
improvvisamente franto e teso..
Il soggetto
poetante pare affascinato, anzi stregato dal silenzio, quello che farà seguito
all’ultima voce che pronuncerà l’ultima parola, ma che intanto intride, come la
pioggia, cose oggetti persone. “Solo il silenzio è grande, il resto è
debolezza” sosteneva con qualche buona ragione A. de Vigny. Certo, ogni poeta
sa che il silenzio è la condizione necessaria anche se non sufficiente perché
si possa avvertire il soffio (o anche il “vento”) della poesia e al contempo lo
stato interiore che può permettere la fruizione della stessa da parte di
eventuali lettori. C’è tuttavia un di più, cioè la consapevolezza, propria appunto
del grande poeta romantico francese come del romagnolo Bartoletti, che la
grandezza dell’anima abita solo il regno del silenzio e che la parola, pur
necessaria o necessitata, lo proietta al di fuori di esso facendogli correre il
rischio non solo dell’incomprensione dei suoi simili, ma anche quello del
travisamento o tradimento dell’interno sentire. Probabilmente era questa la
preoccupazione che faceva dire al Montale degli Ossi: “Voi, parole,
tradite invano il morso / secreto, il vento che nel cuore soffia /. La più vera
ragione è di chi tace”.
La
lirica riflessiva di Bartoletti è monologica/dialogica, perché discorso dell’io
al sé come pure discorso dell’io all’altro, teso in entrambi i casi a
ricordare, confortare, compiangere, lamentare la rapina del tempo, la
metamorfosi interna/esterna che cambia le carte in tavola, costringendo a fare
quei conti che siamo portati volentieri a rimandare. Al cotè dialogico
vanno riferite ovviamente le numerose citazioni, manifeste o occulte, dei versi
di altri poeti illustri; e qui non vedrei all’opera l’erudizione compiaciuta di
chi trova un idem sentire in altre voci, ma la decisa affermazione di un
amore anzi di una fede nella poesia il cui messaggio va affermato e rafforzato
in tutti i modi, anche quello di ammettere esplicitamente il debito “(“Così
vado a riprendere parole / le stesse recitate da millenni”, p.6, vv.3-4). Ma al
di là delle citazioni, c’è l’importante lascito di poeti che hanno inciso sulla
formazione della sensibilità, dell’immaginario e della cultura poetica di
Bartoletti. Preferisco omettere un elenco che sarebbe lungo, ma non v’è dubbio
che al primo posto di esso sia da collocare Giovanni Pascoli, autentico genius
loci (San Mauro non è distante dai luoghi cari alla vita e all’ars dell’autore),
che del conterraneo riprende la tematica delle cose umili, quella della morte e
del dialogo con i morti e l’attenzione per le opere e i giorni dell’umanità
circostante; rinviano a Pascoli anche certi brividi e trasalimenti di fronte al
mistero che ci circonda, come anche la fitta presenza del vento.
Sopra
ho parlato di strada non a caso. Quante strade s’individuano nelle poesie di
questa silloge! Non sono strade urbane affollate da una moltitudine di uomini
solitari; sono strade paesane che si aprono e si chiudono improvvisamente. Ad
esse non viene attribuita una funzione meramente denotativa, referenziale,
veicolando simboli di una mancanza vitale, di cammini non percorsi, di potenzialità
inattuate. Pur tuttavia nella scrittura “orizzontale” di Bartoletti il reticolo
viario assume un rilievo importante perché l’io si muove e si racconta in uno
spazio concreto (anche il tempo lo è in verità), quel territorio romagnolo (tra
Montefiffi, Pietra dell’Uso, Sogliano) dove ha visto i natali e ha vissuto
lungamente fino al punto di compenetrarsi con esso, di sentirne la fisicità
presente e passata; fino al punto di voler essere in qualche modo la voce di
quei luoghi, ormai preda della desolazione e dell’abbandono ma totalmente
interiorizzati, al punto che loro destino coincide con quello dell’io poetante.
Giorgio
POLI
Nessun commento:
Posta un commento