martedì 16 ottobre 2012

Su Nebbie in collina di Raffaele Barbieri

Delta3 edizioni, 2012

recensione di Vincenzo D'Alessio

Nella collana “Pugillaria”, diretta da Paolo Saggese presso le Edizioni Delta3, è stata pubblicata la raccolta di sessantaquattro poesie del poeta Raffaele Barbieri con il titolo di: Nebbie in collina. Sequenza poetica che appare dopo la precedente, presso il medesimo editore, che recava il titolo: L’abito nuovo 1992-1997. In questa prima raccolta poetica spiccano poesie scritte sull’onda delle emozioni giovanili, dell’entusiasmo per l’esistenza, per gli affetti familiari, per l’impegno musicale e la partecipazione civile. Una poetica costruita con infiniti tasselli di esperienze tratti specialmente dalla musica, la cui forma poetica utilizzata maggiormente è la ballata. Il verso giambico che ritroviamo nella seconda raccolta del Nostro, giunto alla maturità, con la piena coscienza dei percorsi esercitati prende spunto dalla poesia La figlia del barcaiolo presente nella prima raccolta: “A me solo / racconta la sua storia / me solo ché / canto l’Amore.”
Il bardo che racconta le sue storie, accompagnato dalla mandola, a cavallo di un modesto asinello, con la bisaccia piena di scritti poetici più che di cibo, sprezzante della ricchezza e dell’altrui indifferenza, migra di contrada in contrada alzando la voce per raccontare le sue storie d’Amore. Vedo così Raffaele Barbieri, e lo dicono bene i suoi versi di questa seconda raccolta: “A noi non è concesso piangere / destinati a stupire dovunque / (…) A noi non è consentito amare / … e io mi chiedo il perché” (pag. 17).
L’anafora di questa poesia “A noi” è la verifica dell’io che compare nella chiusa poetica, del passaggio dal generale al particolare: i poeti, il poeta. Che riprende nella poesia Occhi narranti a pag.28: “Occhi narranti / di gatti randagi / nel buio travalicano / il senso del vero.”
L’anima di un gatto, figura tanto cara ai poeti, affiora nei versi delle ballate popolari che riprendono la vita vera, amata, subìta,rincorsa, sulle “colline” dove il poeta vive e si sposta, appena le nebbie della mente si diradano, alla ricerca di un amore, di una donna / poesia che raggiunga il suo cuore, la sua ispirazione, e finalmente plachi l’arsura dei viaggi, interrotti e ripresi, come raccontano i versi che seguono: “Si ramano i capelli / le signore / a primavera. (…) finte madonne / s’affannano / in cucina. / Il rito del caffè / le accomuna i destini” (pag. 21). Ancora il ritmo diventa grottesco nella poesia Spiaggia d’agosto dove il poeta osserva, snervato , i luoghi comuni: “Voci gracchianti di madri distratte / sotto ombrelloni stampati a fiori. / (…) parlano, fumano, ridono. / Il sole sorride della loro vanità” (pag. 35).
I versi di questa seconda raccolta sono energici, pungenti, sempre veri, per aderenza alla realtà. I sogni trattenuti per una intera generazione sono rimbalzati come i numeri della tombola sul cartellone del tempo: hanno premiato gli “astanti”(parola ripetuta ininterrottamente per l’intera raccolta) e ferito il poeta che componeva strada facendo. Il paesaggio, memore della civiltà contadina, dell’uva, del vitigno d’infanzia, delle donne al lavoro, oggi è pervaso da nebbie che rubano allo sguardo il limite dell’orizzonte e al viaggiatore negano la continuità della sicurezza: “l’anziano viaggiatore / sprovvisto di biglietto. / (…) Si sentì di colpo / cinquant’anni in meno. / Proseguendo a piedi / sorrise alla città” (pag. 92). Nessuna forza, neppure la fine della vita, scoraggia il verso del Nostro. Si scopre continuamente bambino, che riesce a prendere in giro anche il rude “controllore”(metafora della morte),durante il viaggio nel tram.
C’è tutto un mondo che si muove. C’è una forza d’animo che affronta il tema dell’Amore con una delicatezza che sfugge agli uomini: è la perdita della madre che ha generato la sete d’affetto incontenibile nel poeta. La morte ha scalfito, seppure per un attimo, la penna turbolenta del bardo, ha reso la sua voce sommessa: “Madre ho voglia di scappare, / tornare bambino, / tuffarmi nel tuo sorriso di primavera” (L’ultima dal fronte, pag. 15). Una macchia d’inchiostro sulle pergamene nella bisaccia, una macchia nel cuore: ”Non voglio più stare qui, / dove la terra è neve / e la neve è sangue” (ibidem). L’enjambement esprime tutto il dolore della mancanza. Dolore ben nascosto ma che non lo lascerà mai più.

Il critico è essenzialmente un ottimo e attento lettore. S’è anche un poeta, meglio! La critica è la ricerca dell’amore verso la Poesia, condivisa con chi scrive. Le stroncature non riescono a spezzare le penne dei poeti. I critici generano correnti, Apocalisse di pensieri, di idee. Ma l’unica vera corrente è il fiume eterno che ha spinto il primo uomo a sentirsi solo di fronte alla volta stellata del cielo, all’immenso fragore di una grande cascata, alla meraviglia di un fiore che diviene frutto, alla morte di un figlio tenuto tra le braccia. Io so che questo è, per me, “critica”. Come mi ripeteva il maestro don Michele Ricciardelli: “Molto meglio il silenzio, che farneticanti parole, di fronte alla lettura di un testo poetico”. Vorrei per questo citare parte dell’introduzione realizzata a questa raccolta dal valente critico letterario contemporaneo, Paolo Saggese, direttore della stessa collana nella quale è prodotta: “Ma la lotta è sempre solitudine, e perciò può significare sconfitta: (…) Ma domani il poeta si rimette in gioco (Ripartenza), perché vivere di rimpianti, di rancori, di silenzi, significa uccidere la grande Poesia, che c’è dentro di noi” (pag. 13).


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