recensione di Narda Fattori
Mi
è capitato spesso di domandarmi che cosa si intendesse per prosa poetica;
conosco diversi stili di linguaggio in prosa, compresi alcuni che sono molto
vicini alla poesia (oltre al Cantico dei Cantici penso, prosaicamente, ad
alcuni brani di Erri De Luca, della Morante e di un’altra infinita serie di
autori). Tuttavia la prosa è altro dalla poesia come la poesia è altro dalla prosa. Possiamo incontrare
frammenti di prosa che aprono visioni e orizzonti propri della poesia, che
setacciano il linguaggio per portarlo alla sua purezza originaria.
Gladys
non è di origine italiana e forse ha voluto mettere alla prova la sua competenza
linguistica in una forma preziosa e duttile, e tuttavia difficile perché basta
un sostantivo, un aggettivo, un verbo in più per far cadere il castello delle
parole e ridurle ad un mucchietto
di fonemi.
Anche
se i libri spuri oggi sono di moda, personalmente preferisco la poesia-poesia
e la prosa-prosa; sempre di comunicazione si tratta ma, a mio modestissimo
parere, certe ibridazioni perdono in forza, in slancio, in visione.
Detto
questo, devo rimangiarmi tutto. I frammenti prosastici di Gladys hanno una
tensione che incatenano il lettore e lo conducono sullo stesso terreno
dell’autrice costringendolo ad osservare con i suoi occhi l’universo che lei si affaccia ad osservare. È un
universo personale, interiore, un paesaggio psicologico che la poetessa (preferisco
chiamarla con questo epiteto) desidera far emergere e farci partecipi delle
mille sfaccettature che la luce e
l’ombra vi hanno disegnato; non è un libro aforistico, sapienziale, al
contrario, è dubitante e dubbioso: accanto ad alcune certezze si scagliano
maree di dubbi e di materiale ancora sommerso al quale non si riesce a trovare
un nome.
Lo
stratagemma retorico di usare il “tu” nella scrittura consente di allontanarsi
dal materiale che, come un minatore, si porta alla luce: può essere argilla ma
può contenere anche pietre preziose, soprattutto una mole di sofferenze: “… Le cortecce annose, dure come parole
mordaci, impietose, tu le assorbi dolorosamente, ti penetrano, si contorcono
dentro la tua sostanza più genuina e profonda, dove ciò che tu sei si rivela in
tutte le tue infinite possibilità.”
È quasi una dichiarazione di poetica e contemporaneamente un avvertimento a chi
scrive e a chi legge. Perché in un punto
qualsiasi della vita si avverte il bisogno di aprirsi alla vita stessa,
alla molteplicità delle sue forme e sostanze, siano esse foriere di spalancate
finestre sull’immenso o povero censimento dell’esistente.
Ci
sono frammenti di gioiosa innocenza accanto al altri di abbattimento, di una malinconia
che confonde stato d’animo e natura ingrigita. Ma non è forse così la vita?
“Tu non sei solo la tua immagine, come non solo la tua ombra”; da questa affermazione credo che maturi la potenza del titolo del libro: finestra cosmica è un ossimoro perché da una finestra si può osservare solo una piccola porzione del cosmo, la gran parte resta ignota e abita in noi come potenza che cerca di attualizzarsi, senza riuscirvi se non alimentando fede e sogno.
“Tu non sei solo la tua immagine, come non solo la tua ombra”; da questa affermazione credo che maturi la potenza del titolo del libro: finestra cosmica è un ossimoro perché da una finestra si può osservare solo una piccola porzione del cosmo, la gran parte resta ignota e abita in noi come potenza che cerca di attualizzarsi, senza riuscirvi se non alimentando fede e sogno.
La
seconda parte del libro, “Verso la luce” è invece in versi. Muta anche il tema. Qui trova voce l’amore, che è luce, ebbrezza, viaggio, presenza, insomma vita.
Quindi
esiste una continuità fra la prima parte e questa successiva, fra la dolenzia
messa frequentemente in luce nella parte prosastica e questa che inneggia ad
una presenza fisica, a luoghi definibili e descritti, diversi dai topoi della
prima parte, luoghi dell’anima prima che dell’ambiente.
Pure
anche questo amore trapassa in tutte le creature, è invasivo e pervasivo: “vorrei un altro idioma un linguaggio
universale / che mi permetta di rivelare tutte le creature del silenzio / le
creature del sacro cosmo che in me come in te dimora…” e ancora: “io non coltivo scorpioni / non cucino
lenticchie avvelenate / non colleziono schegge di rabbia / mi libero dai fermenti
del rancore…”
Se
così sarà, allora la bellezza e l’amore salveranno il mondo.
(v. anche la recensione di Vincenzo D'Alessio)
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