Stelvio Di Spigno
Il gesto poetico di Stelvio Di Spigno nasce, matura e
si svolge attorno ai misteriosi segni di una frontiera obliqua e tagliente,
sulla quale si muove, quasi frantumato e sbriciolato in un drammatico lacerto
residuale, lo stesso «io» del poeta.
Questa frontiera, zona di degradazione e di
disfacimento di ogni ipotesi di «identità», appare sordamente reattiva e
feroce: essa respinge la voce che interroga i fantasmi del proprio vissuto,
scomponendo e confondendo le notizie raccolte, dissestando l’itinerario già
tracciato, devastando e rovinando i pochi, labili segnali di riconoscimento, le
fragili coordinate disegnate sull’oscura topografia del cammino intrapreso.
La parola poetica, così, allo stesso tempo, edifica e
sommerge, condensa e fa svanire, mostra e cancella: diventa, insomma, una
specie di teatro delle parvenze e delle sottrazioni, in cui l’intera realtà
osservata, e prima di tutto la coscienza e il soggetto, si rivelano caduche
sembianze, nulli vaniloqui, giochi effimeri e bugiardi. Il paradosso è che lo
sguardo poetico, pur mostrandosi fugace, transitorio e mortale come l’io che lo
produce, acquista una nobile dignità, una esemplare altezza etica nel
riconoscere, appunto, con trasparente pacatezza e con sofferta commozione, che
la parola è solo, finalmente, un brandello, uno squarcio, un detrito: cioè
l’ombrosa rimanenza di un tutto inafferrabile e inconoscibile, che rifugge da
ogni possibile dicibilità, lasciando al poeta soltanto l’agra meraviglia di
registrare il dilatarsi di una fitta disgregazione, la povera eco di un’avara
particella di senso. Ed ecco: la poesia coincide con il nudo aprirsi di
quel destino notturno di espiazione di sé e di totale dissolvimento, giungendo
a toccare un punto nel quale convergono il tutto e il nulla, il vuoto e l’immensità,
la nascita e la morte.
Scrivere è dunque assegnarsi a una vertigine
azzerante, ad una progressiva sparizione, a un’ auto-destituzione che
annunciano di continuo il profilarsi di un tramonto, lo schiudersi di una
totale, irreparabile resa. Bisogna, allora, «denudare ciò che è lì da
tutte le sue rappresentazioni esteriori, fino a quando non sia altro che una
pura violenza, una interiorità, una pura caduta interiore in un abisso
illimitato» (Georges Bataille).
L’abbagliante nettezza e l’impeccabile controllo
stilistico della poesia di Di Spigno non sono certo pacificanti, né riscattano
l’amara inquietudine del suo viaggio: lo accompagnano, invece, con una lucida
quiete, con un distacco nitido che sembra consegnare il poeta stesso a una
regione di stupìta e remota sospensione, simile a un bosco impenetrabile o a un
doloroso esilio.
Dissolvimento
A mio padre
Diciamo pure ch’eri
fatto come una miccia o una stiva
che ti attaccavi
anche all’aria che non respiravi
perché sapevi cos’era
perdere ogni cosa
all’improvviso o
lungamente, calpestandoti o guarendo.
Fissandomi
all’interno dei tuoi pensieri irreali
guarda come la tua
vita s’è incuneata nella mia,
trasformandoti sempre
e modificando anche me
che ora perdo
scrivendoti e ricostruendoti altrove
così lontano da casa
da non sapere dove
ci siamo mai visti,
conosciuti o rinfacciati,
se fossimo mai nati e
se è vero che eravamo.
(da La nudità, edizioni PeQuod, 2010)
Stelvio Di Spigno è nato a Napoli nel
1975. Ha pubblicato la silloge Il mattino della scelta in Poesia
contemporanea. Settimo quaderno italiano (2001), i volumi di versi Mattinale(2002,
Premio Andes; 2ed. accresciuta 2006, Premio Calabria), Formazione del
bianco (2007, già finalista al Premio Sandro Penna), La nudità (2010)
e la monografia Le “Memorie della mia vita” di Giacomo
Leopardi – Analisi psicologica cognitivo-comportamentale (2007). Suoi
testi poetici sono apparsi, tra l’altro, sulle riviste «L’area di Broca»,«La
Clessidra»,«il Cobold», «Gradiva», «Hebenon», «Sinestesie», «Specchio della
Stampa».
1 commento:
Grazie Mario, a suo tempo anch'io spesi qualche parola per questo libro di Stelvio che lo pone, a mio modesto pensiero, tra le voci poetiche più decise e importanti del nostro tempo.
Roberto Maggiani
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