martedì 13 dicembre 2011

Su Il margine di una città di Francesco Filia


Il Laboratorio Edizioni, 2008
recensione di Vincenzo D’Alessio
Il poemetto Il margine di una città, scritto dal poeta Francesco Filia in anni dal 2004 al 2007, è un racconto dell’esistenza di Francesco all’interno della città natale, della città fantastica, della città cercata. Un viaggio che inizia dal gioco, ricerca la luce, la gioia, medita costantemente sulle “mura” che obbligano l’esistenza a frangersi in ombre, ricordi, “per saggiare l’alterno esistere di una vocazione / il sottrarsi dei morti alla parola” (frammento VII).
Il poemetto non è certo “esercizio”  facile per un poeta: epopea equivale a racconto poetico. Filia ha raccontato in cinquantacinque frammenti, tutta l’integrità e l’unità d’azione dell’esistenza di Francesco e della città che l’accoglie. Integrità dello sviluppo del racconto: dall’infanzia, all’allontanamento per lavorare, al ritorno come padre di una  nuova vita. Unità d’azione dove tutto si svolge tra memoria e dolore del presente, sempre con gli occhi attenti agli accadimenti, lo spirito proteso a migliorare l’esistenza per chi viene: “(…) Sarà la corsa mozzafiato / un brandello di cielo a difendere il respiro / da quest’assalto di spinte e polvere ingoiata / a restituire una misura alle occhiaie dei nostri volti” (frammento XII).
Il poeta è il profeta, ma nessuno gli dà ascolto: “(…) con il tempo che ci chiama a raccolta / consunti, consacrati” (frammento X); “Come una profezia che si compie” (frammento XXIX). La città nei suoi margini  è vera e indefinita. La città che si svela è imperfetta e incompiuta, vista dal mare o dalla sommità del terrazzo: “Città verticale nutrita dalle sue viscere vuote / (…) varco / dove sopravvivere” (frammento XXVIII)Qual è la città del poeta? La città non marginale, quella che idealmente vive di se stessa nella completa luce, nell’infinita gioia, nella gratuità della civiltà condivisa: “Dimoro nell’alba delle strade, nel primo / vagito di una piazza, sul filo di ombre / che salgono lungo questo muro, nel mattino dopo / di tutti i sogni” (frammento LII).
Anche noi vorremmo una città che fosse così! Anche noi abbiamo lottato, atteso, fatto germogliare i prodromi di cittadini nuovi, per delle città nuove!  Abbiamo, come scrive il Nostro, “Ricostruisco il passato negli occhi di mia figlia” (frammento LV). Ma la condanna delle città è quella dell’assenza delle voci vere, delle troppe ombre, delle pistole puntate alla testa per rubare anche l’anello nuziale al viandante. La gioia di vivere non è nelle città, non è nel loro margine. Tutta la città ruota su stessa, in questo poemetto, come una roulette russa: “(…) città vorace di figli e  notti / in un volto assente dopo un collasso / a fine corsa” (frammento II).
Come per Francesco, di questo poemetto, così anche per noi c’è stata l’emigrazione verso la parte alta dell’Italia, per altre città, per altri volti senza nome. Per tutta la vita un pendolo che oscilla tra la necessità del lavoro e il ritorno alla quotidianità delle mura costrittive del nostro Sud. Una gioia trattenuta nel petto, senza possibilità di realizzazione completa. La voce che grida, insieme ad altri, la necessità dei cambiamenti che tardano a venire, o non avvengono.
Amarezza e riscatto. Come per il Francesco del poemetto che leggiamo; il messaggio che viene reso stupendamente, nei versi lunghi, narranti, affidati all’enjambement per avere la forza di tradurre l’energia dell’epos; del personaggio che si svela nel cuore delle cose, degli altri esseri viventi:
  “Ogni cosa è accaduta e le gambe hanno messo radici /
    su questo muro. Ora non posso più scendere, posso
    solo spaccarmi.” (frammento III)
                            

Nessun commento: