venerdì 2 dicembre 2011

Giuseppe Caracchia e “La virtù del chiodo”

Edizioni L’Arca Felice, 2011

recensione di Vincenzo D'Alessio

L’agile raccolta dei versi, del ventenne Giuseppe Caracchia, pubblicata a Salerno presso le Edizioni L’Arca Felice, a ottobre di quest’anno, reca il titolo La virtù del chiodo, si è rivelata un poemetto arguto e di grande passione per la geometria della esistenza. Una scalinata d’argento verso la sublime ricerca “dell’adeguato”: inteso come spazio-tempo dell’attesa, sosta, dalla corsa che la Cultura occidentale insegna da diverso tempo. Contemporaneamente all’uscita di questo poemetto del poeta siciliano a Salerno, vedeva la luce un altro suo lucido intervento filosofico presso le Edizioni Fara di Rimini nell’Antologia Il valore del tempo nella scrittura, curata dall’editore-poeta Alessandro Ramberti. Lo spunto del tempo , scelto dal Nostro nella forma ottimale di Kairós, mostra il “subbio” del telaio al quale lavora, anche se giovanissimo, la forza creativa della poetica di Caracchia: “A mio parere l’adeguato non è una misura universale: è strettamente personale; è un calcolo (neanche troppo inconscio). Ma in esso il singolo trova la più piena e condivisibile dimensione universale”(pag. 210). E poco più avanti, nello stesso testo, continua: “La nostra cultura ci insegna soprattutto a riempirci, sommando. Le sottrazioni sembra non s’addicono alla contemporaneità occidentale, eppure la cristianità delle origini (tra le fondamenta di quest’Occidente) probabilmente contemplava questo rallentare e riconsiderare, misurando, il proprio bagaglio; di frequente buttando via qualcosa” (pag. 211). Fatta questa premessa, la raccolta La virtù del chiodo, si apre al lettore come una forza universale trattenuta dai versi. Una “rivoluzione” che spacca la “terra” e permette di seguire l’Io del poeta (che sembra assente), in quella dura lotta, che il “chiodo” compie, nell’ unire due realtà opposte materialmente; unite, però, universalmente nella continuità, negli esseri umani, di “ragione” e “sentimento”. Questo poemetto è scritto contro il Nichilismo che attanaglia l’attuale, e quella già trascorsa, energia sociale: voglia di negare la ferace validità dei valori che l’Umanità ha propugnato per raggiungere l’equilibrio con la Natura di questo azzurro pianeta. Nei versi ricorrono sovente le parole “mistero”, “universo”, “niente”, “vuoto”. Una tela di ragno lucente, “geometria di astri”,distesa sul baratro della “nostra imperfezione”, dove innanzitutto vale il coraggio di “osare” il cambiamento, di quella geometria, predestinata, dell’umano: “ sarà questo il mistero del chiodo: / tingilo d’azzurro e piantalo nel vuoto)”. Scrive a tale proposito Caracchia: “il me stesso degli altri giorni risponde che la paura è innata e necessaria, mentre il coraggio lo si impara, anche azzardando e persino muovendosi fuori luogo”(op. cit. pag. 212). I versi, di questa complessa raccolta poetica, sono disposti in quartine singole tenute insieme dalla rima baciata o alternata; con la presenza di assonanza nelle chiuse dei versi; avvalendosi del coordinamento per asindeto; e l’uso frequente dell’enjambent per attenuare, sull’inizio del successivo verso, la forza dirompente del canto poetico; c’è anche il ricorso al vocativo in una poesia di carattere affettivo. Una bella prova di equilibrio nella ricerca poetica, fondata sulla classicità degli studi compiuti e l’elaborazione di un canto nuovo adatto allo stile “paratattico” che armonizza la poesia contemporanea (il Nostro cita, in una sua raccolta già pubblicata, il poeta Elio Pagliarani). Un lucido aratro “spacca sassi”, questa è oggi la forza dei versi di Giuseppe Caracchia, poeta meridionale, munito di una forte volontà di ricerca, non comune nei giovani. Lo indica anche il curatore Mario Fresa, nella parte introduttiva della raccolta: “ed è così che l’itinerario della ricerca decide, infine, di spostarsi nella direzione dell’azzardo, della scommessa e dell’imprevisto, spingendo il poeta stesso a immergersi entro le gioie, belle e crudelmente fuggevoli, dell’istante.”

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