venerdì 25 novembre 2011

frammento per Caterina Camporesi


(intorno a Dove il vero si coagula, 2011)

massimo sannelli

[scriverò di nuovo il diario delle sensazioni: dunque mi renderò ridicolo].

1. quello che si coagula normalmente è il sangue: il vero che si coagula è come un vero-sangue. come se il vero fosse liquido e vitale, uno dei fluidi corporei [e non si tratta della verità, un assoluto: ma del vero, cioè delle concretezze pratiche e quotidiane della verità]. e se “il testo poetico è il transito fra un silenzio e l'altro” – recitazione di Paz, in epigrafe - il testo poetico [che non è la poesia, ma il testo: come la verità non è il vero] è il sangue, un movimento che può coagularsi. [la notte è lunga, passa sui mezzi di trasporto: sperimentavo la fluidità su un treno e su ruote, fino a Nizza, poi Liguria, e di nuovo Rimini,
Ancona, Macerata; e il viaggio è il transito fra una stazione e l'altra – via crucis, via lucis, via pacis, via vitae]. Caterina Camporesi scrive un diario di illuminazioni: stati del tempo e del sé, che scopre parlando, riposa – si riconosce – lavorando. sono gli argomenti in cui la lingua è messa alla prova: perché qui non regna l'oralità primaria, e la lingua scritta comporta una traccia e un riconoscimento, e la lingua è anche uno dei fatti, cioè un pezzo solenne del vero; ma i segni dell'anima fanno un suono di sospiri o di sogno: non parlano una lingua precisa [altrimenti saremmo immortali, espressi e limpidi fin dall'inizio e dall'interno]. una vera coagulazione del vero [il fatto] è la voce [un fatto]: "si coagula in gola la parola / ormeggiata nella neve // acque lustrali rischiarano anfratti / su fondo nero di pozzi riaperti". anche i fatti mondani si coagulano: "acque amare rincorrono foci / lungo crateri lunari / con occhi ritorti verso terra // l'affanno lo raccolgono i venti / coagulandolo in schianti di nubi / capriolando arcobaleni". e poi esistono gli ambienti mentali, come esistono - cioè ci non-sono, nella terminologia fantastica di Furio Jesi intorno al Bateau ivre – le formiche mentali dipinte da Buzzati: “In cunicoli dove il vero si coagula / si stratificano inquiete sequenze // la luce dello spirito perfora palpebre / staziona in dilatate pupille”. come si sorride del diario intenso e della petite mort, un ambiente poetico non approverà le “vene aurorali”, la “parola innamorata” e i “sinfonici giochi”. Caterina sa che le parole canore le precludono l'ascolto di un'aiuola disperata e goliardica? se lo sa, non le importa. per qualcuno il  canto dei sintagmi assoluti è  petrarchismo, ma Petrarca – attenzione – non scrive poesia come un saggista. l'astrazione lirica di Onofri, ieri, o di Marotta e Cagnone, e di Camporesi, oggi, ha molto a che fare con una bella scuola filosofica e psicologica, che ragiona e sente, e divide i frammenti in sequenze lucide, con un linguaggio lucido, ma intraducibile e irriducibile. è poesia di intellettuali – esperti del dolore come figure arcaiche, lavoratori su una cattedra e in un posto da metronotte o in una Asl, caso per caso – e si sono spezzati mente e ossa due e tre volte prima di dire una parola. quando la parola si coagula, dopo la cultura, dopo la mistica e dopo un lutto o l'incidente che spacca e segna, non importa più che "parola innamorata" sia anche il titolo di un'antologia contagiosa, se “cattedrali notturne” sia il non plus ultra della lirica. si può fare tutto, ma DOPO le rotture di ossa e di vita.  dopo il DOPO si abbandonano molti vincoli inutili, per iniziare la coagulazione: “eclissare volti e sagome / sfoltire insane presenze / annacquare in dolci acque / tra le dita del tempo // attendere grani di verità / dorarli al solleone”. dopo le insane presenze, ci saranno le vere presenze: il vero coagulato, che era fluido. bisogna leggerlo come lettori di intenzioni e di biografie, non solo di testi.

2. coagulare l'invisibile in voce libera è il rischio di parlare una lingua troppo alta per essere amata. io non ne rido: perché nella poesia non cerco [più] la poesia. non dico nemmeno la banalità orrenda del "cerco la vita". non cerco la vita nella poesia: cerco le ragioni per restare nella vita. di un poeta, un primissimo amico, vidi un quadro: uno spazio bianco inondato del suo sangue, perché volle morire; e quel poeta rilesse l'Aprèslude di Benn e si disse, da solo: “resta”. poi lasciò la città, gli ambienti e la tirannia dei rapporti: ho visto una foto in cui è meno esile, sorride. ecco, la poesia dovrebbe lavorare come la glossa al solo imperativo “resta” [lo stesso dei discepoli smarriti e un po' ciechi – si tratta di noi, è chiaro – ad Emmaus: resta con noi, perché si fa sera].

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