L’uscita della raccolta Viatico di Massimo Morasso è l’evento più dirompente della poesia recente, non solo di quella del 2011 il cui campo è in parte indagato su questo numero. Si tratta di una dirompenza discreta, in realtà; tanto discreta che non tutti se ne accorgeranno subito, anche perché molti hanno perduto le categorie antropologiche per farlo. Poesia concepita come “grammatica della visione interiore”, essa si muove in due direzioni. Innanzitutto afferma che siamo plurali, che la nostra voce è somma e sintesi di “un folto numero di doppi”. La nuova raccolta afferma fin dal testo d’inizio chiaramente proemiale cosa sia la storia delle esperienze di poesia che giunge a noi dal passato: “Se chiudo gli occhi / penso a una costruzione della gioia, / qualcosa come un'alta cattedrale fatta d'anime / che abitano nell'aria in preda al sogno/di un altro mondo, più essenziale, dietro al nostro”. Ecco fatto, cinque versi e sappiamo bene cosa formerà il nostro affanno, la nostra scrittura, anzi qual è il luogo stesso generante i nostri versi, i nostri grappoli scelti, “i chicchi che ho lanciato verso gli angeli” e che vengono da una misteriosa, “fertile permanenza dell'amore”. Non si tratta di una facile positività, come dimostra la figura di Orazio, parente del poeta da non confondere con il poeta latino, che vi si aggira come “un’anima spaurita”. Ma la serie di personaggi ospitati dopo questo inizio (la prima sezione si chiama “Ospiti”) serve non a dimenticare la pressione del tempo, del potere e delle necessità, anche economiche, ma a far memoria “del mondo dietro al mondo/che ci stringe d'assedio ed è tutto ciò che abbiamo”. Diversi altri poeti contemporanei hanno istituito una simile galleria di personaggi, poeti e non, e attraverso di essa hanno espresso l’intima ragione del loro rivolgere parole. Coloro a cui Morasso dedica le prime poesie sono Yvan Goll, la Hillesum, la Campo, A. Tarkovskij, Yeats, Congdom e Rilke e quest’ultimo apre poi un’intera sezione di dialogo serrato, in cui però sembra che Morasso voglia anche liberarsi dell’ingombrante presenza dell’austriaco (“Rainer non voglio più confondermi con te...”) chiama “Rilking”, che nel linguaggio degli studiosi vuol dire, “svagate chiacchiere su Rilke e dintorni”. Si noti infine che la raccolta Viatico, orchestrata secondo uno spartito abbastanza complesso e intrinsecamente connesso, si conclude con un’intera sezione di traduzioni da altri poeti, traduzioni che diventano praticamente poesie dello stesso Morasso, secondo quel movimento di assunzione-quasi-trasfert che ogni sua lettura provoca nel corpo della sua poesia – e, forse, non solo. Insomma, non siamo soli neppure nell’attimo in cui la poesia scaturisce.
La seconda direzione va verso lo spirito, ed è questa la categoria meno comprensibile oggi. Il motivo sta nell’interruzione di una riflessione, anzi nella cancellazione interna alla cultura non solo italiana di questo – diciamo semplicemente – tema. Lo spirito è forse un argomento da specialisti, più o meno ecclesiastici, non da letterati e questo è ben strano in un’epoca che ha istituito la parola come ente, ma solo in apparenza. Morasso invece rimane fedele alla questione, “poiché quanto è impossibile non è/se non l'inizio dell'interessante”. Intanto capire qualcosa dello spirito significa curare, o almeno contattare la dimensione dell’anima, dato che: “Se non ci fosse un paradiso / qui cosa ci starebbero mai a fare / in quanto anime”, a costo del dramma: “A lottare con l'angelo, a costruirmi l'anima, / a vivere nei fatti ciò che sono”. Si afferma qui, come fa Gomez Dàvila, che il compito dell’uomo sta nella costruzione dell’anima e la novità è che questa è un’affermazione laica, universale, ancora da iniziare, per chi è “simile a un rabdomante dell'ignoto”, anzi, naturale: “perfino il cane zoppo che vi scorta / può darsi insegua un'altra idea di sé, più sana”. Soprattutto è una ricerca discreta, attenta alle voci più lievi, di un’attenzione che ha ritmi lenti, direi, per niente contemporanei, “di un senso che sogna di non cedere al suo tempo”, dato che ciò che si giunge ad ascoltare sta al confine (senza superarlo) del nulla: “un nessuno / che non la smette, se lo ascolto, di ascoltarmi...” (oppure, come dice la traduzione da Vigée: “C’è sempre qualcun altro / il Tu silenzioso che si parla in me stesso”). C’è un filigrana drammatica, sempre, in cui tutto potrebbe perdersi da un momento all’altro, come in una caduta “in questo nostro cadere senza fine/io sento sempre che vorrei raggiungerti”, ma sta nella costruzione di questa conoscenza dello spirito il compito adeguato e durevole all’uomo. La poesia per Morasso non è lo spirito, esso vive già in tutti ed emerge in alcune esistenze esemplari, non solo dei grandi poeti; essa è semmai una facoltà, come l’intelligenza o l’intuizione; forse una virtù, come il coraggio. E la parola non è tutto: essa introduce, come per spingerci ad incamminarci non solo nel mondo visibile, anche se “la lingua non vede il pensiero”, com’è detto in questo testo, modello della maniera compositiva di Morasso che ci avvicina, con tono quasi argomentativo, all’oggetto del suo discorso che è il mondo e il guizzo eterno velato in esso:
I particolari della sera
Solo in giardino, ho avuto un gesto di pietà
e ho allungato le mie mani sull’erba
annotando i particolari della sera
poiché la lingua non vede il pensiero
ho pensato alle radici di quei molti
steli impettiti nell’anelito del sole
e allora mi è venuta da pensare come in sogno
viviamo al fondo di un oceano d’aria
non siamo separati, siamo un tutto
morte dov’è la tua vittoria.
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