Rita Pacilio
Eros e Thanatos, in simultanea coincidenza di intenti, si rincorrono e si uniscono nella tragica e appassionata poesia di Rita Pacilio. L’elemento che lega le due forme archetipiche del desiderio e della morte, del pieno e del vuoto, della volontà e dell’abbandono, è costituito dall’interrogazione del tempo e dei suoi inafferrabili, occulti segnali; ed è appunto nel dialogo con ciò che non potrà più essere, ovvero con ciò che manca per sempre, che si rivela uno dei nuclei salienti della riflessione poetica di Rita Pacilio: la contemplazione di un’orma lasciata, la constatazione di una voragine impossibile da colmare o da dimenticare. La poesia agisce, quindi, come il luogo dell’evocazione e della rimembranza, come il centro degli eventi già passati e irrimediabilmente consegnati, una volta per tutte, alla sofferta dilatazione di un infinito silenzio. Ed è certo un luogo che vibra di oscure risonanze, di assilli inconsumabili, di proiezioni che annunciano il persistere violento di una perdita irreparabile; ma l’alone, l’ombra, la propagazione di quella perdita ritornano affannosamente, con doviziosa costanza e con acuta ossessione: così la lingua poetica si fa pure, paradossalmente, strumento di salvezza e di assoluzione, perché nel nominare un evento fa sì che quello stesso evento non muoia mai del tutto; anzi permette che si ridesti a una vita rinnovata, e a una diversa sorte, più cangiante e indefinita. Affrontare e rivivere la ferita di un dolore, studiarne il volto e identificarsi con esso, risorgendo ogni volta con la virtù di un’amorosa dedizione: queste le principali, sensibili coordinate di un discorso che mai teme di confrontarsi con le trafitture del sacrificio e della disperazione, sempre e solo confidando nella risorsa di un invincibile amore: così tutto – il passato e il presente, la distanza e l’immanenza – spinge il poeta a vivere e a soffrire le scosse di una lotta interminabile, segnata da istanti di esaltazione e di sconfitta, nei quali s’intersecano e si succedono la malattia e il risanamento, il gelo e la passione, la sofferenza e l’affrancamento, la voluttà e il tormento.
Trasuda la costola di ricordi
si lamenta e danza sull’altare
riflettori accesi cinque volte
ed era festa sotto il vetro.
Mi sono procurata i lividi
di notte mi segnavo con la croce
tentavo i graffi con la carezza
facevo la morta sul calvario.
Indossavo il saio e il silicio
io ero l’orrore del suo letto
la strage degli agnelli innocenti
una guerra sulla pelle divina.
Ma ero un argine di veleno
addensata di rosso e castità
poteva bastare una parola
persino l’aria avrei baciato.
Invece piovevo cadaveri
e gli occhi piangevano nudi.
Ora accarezzo lenzuola di casa
le hanno messe nella mia chiesa.
Dove mi affanno in queste cose.
(inedito)
Rita Pacilio è nata a Benevento. Sociologa, si occupa di Poesia e di Musica Jazz e di Orientamento e Formazione nell’ambito dello Sviluppo delle Politiche del Lavoro Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesia: Luna, stelle e altri pezzi di cielo (2003); Tu che mi nutri di Amore Immenso (2005); Nessuno sa che l’urlo arriva al mare (2005); Ciliegio Forestiero (2006); Tra sbarre di tulipani (2008); Alle lumache di aprile (2010); Di ala in ala (Pacilio – Moica, 2011). Nell’agosto 2006, l’autrice presenta al grande pubblico il progetto «Parole e musica» - Jazz in versi: una proposta progettuale ideata e curata dalla Pacilio che sceglie per alcune sue liriche la musica di Claudio Fasoli, noto compositore, arrangiatore, sassofonista di fama internazionale, il pianoforte di Massimo Colombo e di Antonello Rapuano, la chitarra di Giovanni Francesca e la tromba di Luca Aquino.
2 commenti:
ottimo ritratto di donnartista capace di fondere poesia e musica sensa alcuna cesura espressiva, con stima
roberto matarazzo
Musicale lirica, la cadenza dei versi frangono senza pietà, molto apprezzata
Un cordiale saluto Tiziana Tius
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