venerdì 7 gennaio 2011

Su Danza Immobile di Gladys Basagoitia Dazza


FaraEditore, 2010
recensione di Vincenzo D'Alessio
Quando mi pongo alla lettura di un testo, quando è tra le mie mani e scorro le pagine una per una per completarne la lettura, si compone innanzi ai miei occhi l’immagine nitida  dell’autore, seduto accanto al focolare della parola, intento a raccontarmi la sua storia. Sovente i suoi versi, le sue parole, somigliano alle mie. I suoi occhi sono fiamme serene, innanzi ai miei, e la passione del racconto ci congiunge, ci rende uomini.
Nel leggere l’ultima raccolta, in ordine di tempo, della poetessa peruviana, oggi cittadina italiana, Gladys Basagoitia Dazza,  Danza Immobile, ho rivisto questa figura umana prendere i connotati della poetessa che narra sé stessa, le sue vicende personali e del mondo che la circonda. In molti punti della raccolta, divisa in  sei sottotitoli, ho ritrovato l’infinito immenso delle terre d’oltreoceano, la sonorità del silenzio e della solitudine delle vette scoscese delle Ande, lo Spirito di Fuoco che vibra nelle corde dell’anima e si confonde con l’energia dell’universo. Per un tempo, senza tempo, ho riascoltato  la musica e il movimento degli “Inti Illimani”, che negli anni della mia giovinezza, mi fecero sognare con i loro suoni antichi, caldi, sperduti, come il grido del condor sulle vette nella regione dell’Ancash: dove povertà e violenza si fondono, senza soluzione di continuità, in quelle morti stillate da “Sendero Luminoso” nella selva.
Il Perù è nella lingua, a fronte di questa raccolta, negli scritti che la precedono, e in tutto il racconto dell’esilio che la Nostra vive, come ogni grande anima poetica, colmando questo vuoto con la bellezza dei ricordi e l’uso della parola. In questa stesura poetica le parole che ricorrono maggiormente sono “fiume”, “danza”, “silenzio”. La triade che disegna il paesaggio peruviano. L’immobilità, citata nel titolo della presente raccolta,  è l’ossimoro dell’imperfezione al volo della poetessa rispetto all’immensità della sua energia poetica: “sveglia immobile sogno / neppure lo strazio / spegne il mio canto / (…) mi accarezza dentro / un fiume di miele” (pag. 49).
Proprio nella prima parte della raccolta, intitolata “voci impreviste”, c’è tutta la vena poetica della Basagoitia Dazza. Colori, suoni, frutti esotici, profumi, grandi silenzi. Una creatività inesauribile. Un tentativo, fruttuoso ma faticoso, di conciliare le radici oceaniche peruviane, con il piccolo spazio di una penisola protesa nell’azzurro Mediterraneo. La forza vocale dello spagnolo, nei testi a fronte, e la solennità della lingua italiana, si confrontano, sovente si combattono, dando vita ad una poetica ricca di anafore, enjambement, metafore, intrise di una profonda melanconia musicale, bloccata dalla brevità dei versi e dalle stanze, nella scrittura. La testimonianza più eloquente è  nella poesia dove il verso si distende e canta nella sua forma primigenia: “(…) mai abbracci né il caldo elogiarmi / di giochi e di vestiti solo lo stretto necessario / e tuttavia lei rideva e ci faceva ridere / cantava insegnandoci a cantare (nunca abrazos ni el caluroso elogiarme / de juguetes y vestidos sòlo lo estricto necesario / y sin embargo ella reìa y nos hacìa reìr / cantaba enseñándonos a cantar” (Mia Madre, pag.181). 
La semplicità del dettato è la grandezza nell’anima del lettore. La passione travolgente dei sentimenti, anche personali, sono la piccola imbarcazione che solca le onde immense dell’oceano poetico, nel viaggio che la poetessa ha fatto e ci invita a fare. Il silenzio, richiamato più volte, è la provocazione sincera all’ascolto del dolore personale e universale dell’oceano umano. Di quelle diversità che nutrono le loro speranze nella nostra terra italiana, che è già ingrata con i propri figli, ma per i migrantes  resta l’Itaca dopo un viaggio periglioso e dolente nella memoria. La voce della poetessa è calda, umile, sincera. Potente nel messaggio universale che divide la carne (altra voce ricorrente nella poesia della Nostra) dallo spirito che si sente legato all’universalità umana e all’atemporalità: “alla forza invisibile ormai nulla domando / (…) / nel profondo risposte non possiedo / (…) amo le parole e soprattutto il verbo / ma soltanto il silenzio mi diletta / accarezzo il profilo delle visioni  che contemplo / con gli occhi chiusi    i sogni aperti” (pag. 63, I sogni aperti).
Come non amare questa forma di poesia che ci viene da lontano, diventa una sola forza creativa con la nostra lingua, e parla in modo chiaro alla nostra anima, condividendo la Speranza: “(…) la luce in agguato nella carne del metallo / nel sangue del vetro era una lacrima / e mentre mi baciavi si apriva la finestra / lo spazio era un mare dove un canto di gioia / liberato creava la speranza” (Un canto di gioia, pag.107) la forza dell’enjambement rinnova la potenza del dettato poetico, traduce la forza dell’immagine, dove la fragilità del vetro è contrapposta al calore del sangue, nel dolore della lacrima. Bene ha fatto Gladys a scegliere l’epigrafe, a questa quarta parte della sua raccolta, nei versi del poeta turco Nazim Hikmet, che nel dolore delle diverse prigionie subite, scrive i più bei versi d’amore per la sua donna e per la Vita.
Sono grato alla poesia che unisce, annulla le differenze linguistiche, porta una ventata di giovinezza nella vecchiaia di una civiltà corrosa dall’eccessivo benessere. Sono innamorato di una poesia come questa: “(…) forze del mistero / (…) / e la mia sete di tenerezza” (Catena di luce, pag.101).
  Montoro, gennaio 2011                     

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