martedì 3 agosto 2010

L’Intervista: Franco Festa

di Antonietta Gnerre

Franco Festa è nato ad Avellino nel 1946, ha fatto di mestiere il preside, dopo aver dedicato per trent’anni il suo amore e la sua attenzione alla matematica e alla fisica. Predilige allo stesso modo Einstein ed Emily Dickinson, Fermi e Pasolini. Scrive per un’antica passione, che solo da poco ha trovato la giusta direzione. “Mi riguarda, m’interessa” è la frase che sintetizza il suo modo di guardare la vita, la sua voglia di impegno sulle piccole e grandi questioni. È sposato e innamorato di sua moglie, Rosalba; ha due figli, Carmine e Titti. Vive da sempre ad Avellino. Gira rigorosamente in bicicletta. Con la sua opera prima: Delitto al Corso (2004), ha vinto il premio nazionale di narrativa poliziesca “Delitto d’autore”. Passi del libro sono stati letti dall’attore Alessandro Preziosi nel corso della Festa nazionale della Polizia del 2008. Con il racconto “Sbandare in curva”, ha vinto nel 2010 il premio nazionale “Il filo d’argento”. Franco Festa è un autore completo, attento, capace di stupirci con le sue storie. Una voce molto acuta che parte dall’Irpinia, con un bagaglio ricco di risorse.

Che cos’è la scrittura per lei?

È una forma di comunicazione con me stesso e con il mondo. Una ricerca di ordine, un’indagine senza fine, l’esplorazione del senso di sé. Rassomiglia a una seduta psicoanalitica, ma è anche noia, fatica, necessità di regole e di disciplina, costanza.

Quando ha iniziato a scrivere?

Ho cominciato a pubblicare molto tardi, a 58 anni. Ma ho scritto sempre. Pagine di diario, racconti giovanili, bozze di romanzi. Materiale informe, disordinato. Poi l’attività politica giovanile mi ha distolto per anni ed è stato un gravissimo errore. Comunque scrivevo anche allora: documenti, relazioni. Altre forme espressive, altre ricerche. E tanto, tantissimo sui giornali. Poi, per dieci anni, ho curato una rubrica quotidiana di satira politica: Mozzafiato, con lo pseudonimo di Groucho. Oggi mi rendo conto che è stata solo una lunga preparazione per affrontare la mia vera forma espressiva, quella del romanzo. Ma non ho voglia di vivere di rimpianti, non ho voglia di altri sensi di colpa per il tempo perduto. No. Voglio pensare al contrario: meno male che il momento è arrivato.

Quali finalità di stile e di contenuto un narratore dovrebbe prediligere?

Posso parlare di me, ognuno ha la sua cifra espressiva. Odio giocare con le parole, le aggettivazioni sovrabbondanti, la retorica nascosta dietro le citazioni, odio le vaghezze, l’indistinto. Amo la precisione delle parole, il loro senso scarno, il linguaggio asciutto, che sia capace di restituire la profondità del reale. Impiego mesi e mesi a correggere, sottrarre, alleggerire. La realtà è ciò che mi interessa. Non sono capace di comporre schemini a tavolino, non conosco mai, quando comincio a scrivere, come finirà, né il capitolo che sto scrivendo, né il romanzo. Ospito i miei personaggi, sono essi che occupano la scena e vivono di vita autonoma. È un procedimento difficile, complesso, faticoso, affascinante.

Lei ha una preferenza per il giallo, è stata una scelta meditata, oppure è nata in maniera naturale, come espressione del sentire?

Scelta meditata certamente non lo è stato. Il primo romanzo è nato quasi per gioco. Un romanzo per l’estate, a puntate su un quotidiano. Poi, mentre scrivevo, è diventata un’altra cosa: un viaggio nella memoria, nella città, nella sua anima scura. La struttura gialla mi serve a questo. A rompere la normalità, l’ipocrisia, la falsità su cui i processi della città e le scelte delle persone si sono retti, a scavare dietro il perbenismo imperante, a riportare la centro dell’attenzione del lettore scelte scellerate, fughe personali, viltà private e collettive. Ma senza moralismi vani, consapevole che è un gorgo comune quello nel quale si muovono lo scrittore, il suo commissario, Mario Melillo, i carnefici e le vittime.

La città di Avellino è al centro della sua scrittura. Perché?

Scrivo di quel che so, di quel che vedo, di quello che mi fa soffrire e, raramente, gioire. Qui sono nato, qui si è svolta tutta la mia vita. Non saprei scrivere d’altro. Di più: penso che la ricchezza dell’universo umano non dipenda dal luogo. C’ è una storia da raccontare in ogni persona che incrociamo, in ogni strada per cui camminiamo. Il narratore è sempre un ladro. Di parole, di emozioni, di esperienze. Ascolta, guarda, assorbe, prova a mettere a fuoco, alla fine, qualche volta, scrive. Ma nulla si perde veramente, tutto si deposita da qualche parte e poi ritrova misteriosamente la strada in una storia, in un passaggio, in una frase.

Come nascono i suoi personaggi?

Alcuni si affermano subito, chiedono all’autore di dargli vita, accoglienza, rispetto. Altri appaiono come meteore, hanno breve luce propria, spariscono, ritornano all’improvviso. Quasi sempre sono persone reali che danno lo spunto alle storie, poi si modificano nel corso della narrazione, diventano altro: eppure continuano a conservare, dell’originale, i caratteri più profondi. Nonostante la scrittura “ gialla” sia spesso seriale, non è così nel mio caso. Tutto cambia, ogni volta, il tempo della storia, i luoghi. Solo Melillo, il commissario, ritorna, ma non ha personaggi fissi di contorno. E poi ora è giovane, ora è adulto, ora con i segni del tempo che passa. Anche lui, però, conserva in ogni storia il carattere di un solitario e onesto funzionario dello Stato, piegato ma non vinto, pessimista ma non arreso. Un “intellettuale”, insomma, consapevole che l’amore è spesso l’unica salvezza.

Qual è il suo rapporto quotidiano con la scrittura?

Alterno lunghe fasi di ozio apparente, in effetti momenti di preparazione, di studio, di assorbimento vorace del reale, ai periodi di scrittura vera e propria. Allora si apre il combattimento tra la mia natura indolente e il rigore necessario per mettere insieme la storia. La scrittura è soprattutto questa lotta continua, questa ricerca instancabile di regole da rispettare. L’estro, la fantasia, l’ispirazione sono certamente il sostrato , ma la realtà è più dura.

Cosa è cambiato nella società, a quali nuovi stimoli bisogna essere sensibili?

Lo scrittore è un osservatore costante di ciò che si muove intorno a lui, e insieme un viaggiatore nella propria coscienza, nel proprio tempo interiore. Fuori la volgarità e l’individualismo sembrano diventati la norma: la superficialità, l’imbecillità, l’egoismo, sono i canoni a cui tutti si ispirano. Ma se poi guardi con più attenzione, dietro l’apparenza si muove il mondo eterno dei sentimenti, l’indistruttibile fascino della bellezza della vita. E’ lì che l’occhio di chi scrive è rivolto, oltre il mare sporco dell’apparenza.
Quale autore sente di preferire in questo momento?
Pier Paolo Pasolini, sempre, da sempre, per sempre. Lì, nel poeta innanzitutto, è l’essenza di tutto il Novecento. Non leggo scrittori “gialli”. Amo i grandi classici dell’Ottocento e del Novecento italiano ed europeo, la letteratura mitteleuropea, Simenon narratore – non di Maigret -, gli americani: Roth, Munro, soprattutto Emily Dickinson. Diffido dei contemporanei, tranne rari casi. Non va infine dimenticato che, essendo di formazione scientifica, adoro i grandi classici del pensiero fisico-matematico. Insomma, un pasticcio!

Secondo lei, il luogo della memoria è il vero ruolo reale?

Detta così, la risposta è no. La verità è più complicata. Il vero luogo è la realtà che palpita intorno a noi, abitata dagli echi di ciò che siamo stati, dai segni della vita di quelli che abbiamo amato o che ci hanno fatto soffrire. Il nostro percorso è fatto di rispetto di ciò che vediamo e di ascolto di ciò che quella visione contiene.
Il narratore diventa grande sotto il peso delle sue perdite e delle sue conquiste. Lei è d’accordo con questa definizione?
Chi narra è grande se si riesce a stabilire una giusta distanza da quelle perdite e quelle conquiste. C’è chi vive in una sorta di racconto continuo del sé, in un’ osservazione ossessiva del proprio quotidiano, in un travolgente esibizione muscolare della propria scrittura. Fiumi di parole che non lasciano un’eco, un segno. Penso che la scrittura sia altra cosa. Le parole esigono controllo, misura, rispetto, perché se raccontano della vita, devono sempre tenere a mente che la vita è una cosa seria.

Cosa sono stati infine il suo lavoro, la passione che lo ha animato, per la scrittura?

Io sono stato professore per tanti anni, ed è la cosa più bella che la vita mi ha dato. Non esiste mestiere più straordinario, nonostante sia oggi così bistrattato, umiliato, trascurato. Lì, ogni giorno, mi sono misurato con la cultura e con i sentimenti, con la passione dell’insegnare e con la sensibilità dolcissima o furente dei ragazzi, dei loro sogni, delle loro cadute, delle loro speranze. Non ho scritto, in quegli anni. Ma sono certo che tutto è nato allora, si è accumulato con lentezza, ha preteso tempo per potersi esprimere compiutamente. Non ho mai raccontato quegli anni, non so se lo farò. Ma in tutti i miei personaggi ci sono quelle emozioni, quelle ricerche di senso, quello spirito di avventura, quella capacità di stupore, che è propria di chi insegna.

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