ci siamo persi tutto, battuto
è ogni passo nelle direzioni
più sbagliate, immaginandoci,
sofisticando una materia pura,
avendo l’orrore di non essere-come...
edificandoci, poi, come immagini eroiche,
perché l’essere semplicemente
segni e non immagini di un dolore e una gioia - non basta.
se sono un’immagine: m’immagino
oggetto, e immagini sono diventati gli altri.
e il soggetto si esperisce oggetto,
e al soggetto si impone una proiezione
immaginifica: l’essere-come, che è il TUTTO,
il mezzo in which we are embedded: reificata
è la materia viva, tutti. (e tutti sono oggetti
ostensivi, la cui esistenza è
la mera esibizione di un’immagine.)
chiamarsi fuori sarebbe però come dire: voglio
essere un pazzo che emette grida
e voci disarticolate. in poche parole
il sistema pedagogico è: devi essere-come:
un’immagine coattiva fascinante,
un enorme e parassitico superIo.
con uno stupore degno di un’epifania,
mi accorgo che gli oggetti e le persone
hanno una consistenza, un volume,
dei limiti finiti: mi sento bene. ma con la sola
immaginazione non si può avere
esperienza, soltanto il
contatto ha ricchezza esperienziale.
ne segue che oggi prevale una percezione
della realtà fondata sulla previsione e
non sull’esperienza, sulla teoria
e non sulla pratica. l'esigenza
semplificazionista di ogni teoria (come
dietro a uno specchio ci chiediamo al massimo: cosa
si proverebbe se prendessi in mano quella mela?)
impoverisce sia la percezione di oggetti
interni, sia quella di oggetti esterni; perché la
realtà delle cose trascende sempre
i nostri vaticini, e perché manca quel virtuoso guadagno
di conoscenza emerso dall’esperienza
che crea a sua volta una migliore capacità percettiva.
per questo gli oggetti assumendo
potenzialmente qualsiasi forma e volume,
diventando evanescenti, perdono di significato e di valore.
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