Edizioni L’Arca Felice, 2008
recensione di Vincenzo D'Alessio
La poesia di Domenico Cipriano mi appartiene per terra e per sangue. Abbiamo nelle dita gli stessi appigli. Disegniamo con la croce le stesse stanze. Le poesie comprese nell’Antologia “Le amorose risonanze”, curata da Mario Fresa, per conto delle Edizioni L’Arca Felice, di Salerno, compongono il novero della ricerca poetica che il Nostro sta realizzando dalla sua comparsa nel contesto della Letteratura Italiana del nuovo secolo.
La vita: insostenibile metamorfosi di forme, di energia, di inumane sofferenze, è il binario parallelo di un’altra identità, di un’altra strategia di alterità, che gli umani definiscono Poesia. Solo utilizzando questa chiave di lettura si aprono a giorno i versi “morbidi nel tono” della raccolta qui presa in argomento. La solitudine del poeta è la verifica costante della posizione assunta, nella catena che lega, chi scrive, a chi ha già scritto. Capita sovente di ritrovare, nei versi del Nostro,il richiamo ai poeti del Novecento e ai contemporanei.
L’originalità è nella limpidezza del verso. Nella musicalità della cadenza. Nella proposizione dei temi ineludibili dell’esistenza: il viaggio, i personaggi, l’ironia, lo smarrimento, la ricerca. “Pendolando” è il verso che Cipriano utilizza per raccogliere l’essenza della materia che affronta e per delineare l’alternanza degli eventi, passati, che scorrono nell’equilibrio del tempo presente. Un pendolo che oscilla tra mistero e rivelazione onirica.
“Abbiamo sempre bisogno di guardare oltre le cose”, questa è l’introduzione che l’Autore pone all’inizio della raccolta. L’indicibile e la realtà. Il pensiero poetico che permette a questa strada di essere percorribile. Allora la raccolta presenta al lettore il flusso continuo delle cifre, il metodico uso dei mezzi urbani, la vita dinamica/statica di chi lavora ad un computer, la mancanza di identità che si rivela nelle fabbriche,i volti incontrati e descritti, ma più di ogni altra immagine emerge il divario tra paese e città.
Il poeta non dimentica le sue radici, l’infanzia,”Il continente perso”, lasciato alle spalle. Tanto che, anche il semplice momento della pausa pasto, diventa il ritorno alla materia delle cose conosciute:
(…)
Solitario
al silenzio di questo tavolo in fòrmica
della carta residua dei panini, del cetriolo
scartato e del bicchiere marcato Coca Cola
sfoglio una rivista d’Arte. (pag. 20)
Il tempo trascorso a dare una mano al padre, commerciante di mobili, ricompare nella disamina dei materiali e delle vetrine. Temi affrontati anche nella prima raccolta. Le metafore e le analogie inchiodano il lettore alle immagini che il poeta scioglie dal ghiaccio della memoria e le rilascia in fresche acque che dissetano:
Sono cresciuto tra i suoni, di notte
nei vagoni ampi della metropolitana
dove le luci sono la spina dorsale
del corpo rigonfio di sonno. (pag.20)
analogia del viaggio di Pinocchio nel ventre della balena
ancora:
Volti ammutoliti fissano
l’indigesta esistenza, la barba
si fonde alle pareti grigie
l’umanità trasfusa ad un mezzo meccanico
riprende:
È un passaggio nella notte
senza sosta per riflettere
tra le facce della metropolitana
dove sonnecchio senza fretta
raggomitolando rumore. (pag. 22)
l’impossibile pace e la mancanza del silenzio creativo.
Il viaggio è condizione di conoscenza. Lo ricorda la poesia di Giorgio Caproni: “Il mio viaggiare / è stato tutto un restare / qua, dove non fui mai” (Biglietto lasciato prima di non andar via). La città in contrasto con il paese: “sui muscoli / indolenti si appoggia la città” (pag. 20) e in altri frammenti poetici, dischiusi tra le poesie di questa raccolta, si affaccia l’identità “simbolo del mercato globale” che è la città.
Cipriano ha nel cuore, e nei versi, la musicalità del paese. La semplicità della luce solare nei vicoli. Gli odori che permettono di mitigare la “strada di ogni giorno”.
Il mio pensiero va al poeta calabrese Franco Costabile, della raccolta La rosa nel bicchiere (Qualecultura, Mesoraca,1985), alla sete di terra e di amore che lega la voce del primo a quella di Cipriano, quando scriveva nella raccolta Via degli ulivi (a Roma, 1950) l’impatto con la città:
Tu non puoi
intendere le notti
del marciapiede,
la mia vita alla luce
delle insegne luminose:
erro, con passo
da soldato sconfitto.
Riconosco la purezza del dettato poetico, in queste “Vite parallele”, che il Nostro ha voluto affidare all’editore salernitano. Un altro pezzo della bella storia poetica nazionale, nata da una voce della verde terra dell’Irpinia.
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