Fara, 2010
recensione di Vincenzo D’Alessio
La raccolta di versi di Rosa Elisa Giangoia è una sequenza, vale a dire un canto poetico che accolga le esperienze umane vissute lungo la linea, tragica in questo caso, del dolore. Dice la Nostra: “Nella vita coglie la verità / chi non è inesperto di sofferenza” (pag. 35). Solo con questa chiave di lettura è possibile seguire, dall’inizio alla fine, l’evoluzione circolare della vita di un essere umano fuori di noi. Perché quando toccherà a noi, piegarsi al taglio della spada della morte, qualcun altro dovrà dire per noi parole che seminano memoria.
C’è un ricorso filosofico-etico in questa raccolta che la unisce ai grandi autori del Novecento e a quelli contemporanei che, della fine dell’esistenza, hanno dato grande prova di sé. Cito per primo il poeta Ungaretti della poesia La madre. Nella poesia della Nostra a pag.32 : “(…) e la fotografia di tua mamma bambina / davanti al tuo letto / lei ti sarà venuta incontro, / felice di te sopraggiunto”. Ungaretti versifica: “Ricorderai d’avermi atteso tanto, / E avrai negli occhi un rapido sospiro.”
C’è la ricerca della forza motrice che muove l’Universo e ci accomuna a tutto il genere dei viventi sul pianeta Terra: “Il vento che è lo spirito / va a vivere oltre la carne / e porta illusioni di parole / nel silenzio del pensiero” (pag. 45). Così come scriveva il giovane poeta, scomparso di recente, Antonio D’Alessio: “Lui sa ascoltare molto, / sa ascoltare e portare con sé / molto, / porterà con sé urla di dolore / urla di gioia” (da La sede dell’estro, 2009).
C’è il messaggio della parola, segno grafico e indelebile, che cerca di riparare i danni che la spada della morte opera con il suo taglio tra passato e presente: “le parole sono il nostro limite” (pag. 41), scrive la Giangoia. La risposta è nella raccolta Parole dal silenzio (2003) di Maria Luisa Ripa: “Le parole scorrono / nel silenzio / come scorre il sangue / nelle vene (…) / diventa/ la barca che ci porta su altre rive / e verso la speranza della vita.”
Sono tante le figure retoriche da citare. Preferisco però esaminare i contenuti (la diversità dei contenitori) per avvicinare chi legge a quella realtà che troppe volte viene evitata, o sfugge, al dialogo comune: “nella costrizione ospedaliera / mentre il mondo esterno per noi svaniva / e il nostro si concentrava in una stanza” (pag. 26). Quanta disattenzione c’è al mondo dei malati terminali?! Quanta solitudine affanna quel cammino verso la fine della vita! Vorrei proprio che si ritornasse al pudore che quest’umanità del XXI secolo ha perduto in nome del denaro. Vorrei veramente conoscere la verità sull’Amore: sentimento invocato da tutti i poeti per salvare e salvarsi dalla ferocia della Morte.
La poetica della Nostra accoglie questo afflato; che non so se hanno gli animali e i vegetali di questo pianeta; recitando a sé i versi: “E intanto t’amavo anche per i giorni / in cui non ci saresti più stato” (pag. 31). Badate a quanto è scritto: “non ci saresti più stato” è dunque lo stare qui, in questa esistenza, a configgere con il moto perpetuo di un pendolo che taglierà, di netto, la comunione tra vivi e assenti. L’Amore a cosa serve? Alla memoria dei vivi? Come ripete in ogni lingua la sequenza della consacrazione del pane e del vino alla tavola di Cristo: “fate questo in memoria di me!”
Che debbo dire alla nostra poetessa che lei stessa non abbia già scritto, e consegnato alla Storia della Poesia, in questa stupenda raccolta di versi, per riuscire: “a vivere di me stessa solamente / consumando il presente che va / e il futuro che viene” (pag54) ?
Noi siamo della vita ma la vita non è solamente per noi, appartiene all’acqua dell’Universo, al suo rinnovarsi, al chiacchierio delle sorgenti e al silenzio dei ghiacciai. In quel silenzio matura l’Arte di scrivere e di far sopravvivere l’Amore nelle stagioni della Vita.
scheda del libro qui http://www.faraeditore.it/nefesh/1sequenza.html
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