di Vincenzo D'Alessio
Il limite tra prosa e poesia c’è. Sorelle, per mano, sconfinano nel cielo dell’Arte. Chi raccoglie i passi lasciati lungo il confine è l’editore Fara di Rimini con il concorso annuale Prosapoetica terra/ di/ nessuno. Il concorso 2009 ha raccolto, in verità, delle voci stupende. Giovani e meno giovani. Tutti muniti di “Una scrittura splendida” (pag. 13) come ha scritto Roberto Cogo nei giudizi su uno scrittore/poeta partecipante al concorso. Ho letto d’un fiato i primi tre racconti poetici. Il primo, “I giorni della ferita” di Francesco Jonus è scritto sul filo della scrittura contemporanea, rapida e sincretica, che lascia pochissimo spazio alla debolezza dei sentimenti. La città è una ferita, vista dall’alto, con la sua purulenta massa di cicatrici che la civiltà umana lascia. Un vissuto da vivere, scambio tra narratore e narrato. Asciutto, crudele, quasi spettrale. Luogo/non luogo del vissuto.
Stupenda è la “Pioggia” di Barbara Rosenberg. “Mi piace la pioggia”, così inzia questo scenario di pace che richiama tanto la scrittura tra sogno e sospensione di Massimo Bontempelli. Stato onirico e ipnosi, transfert, attraverso i sensi metaforizzati: la vista “prima poche gocce che lasciano piccole macchie”; poi l’udito “Anche il suono mi piace, si svela lentamente”; infine l’olfatto “E quell’odore (…) Ti sembra un retrogusto,qualcosa di dimenticato,un ricordo.”
Più surrealista di così! Pagine che trasmettono codici che, nell’infanzia, pescano emozioni: i fuochi di San Giovanni, la pula e il grano da trebbiare. Il ricordo della morte, il pensiero presente della notte che ci avvolgerà nell’eterno. Sopra tutte le cose terrene, il dolore. La guerra. La sofferenza. Il contrapposto della pace. Il purpureo sangue messo al confronto con la dolcezza della pioggia. Anche sul nemico scende la pioggia. Anche il nemico è un uomo che ha gli stessi nostri pensieri. Ma chi è veramente il nemico? Ce lo chiediamo dalla vicenda biblica di Caino e Abele. Eppure l’uomo dimentica. La pioggia scende e parla con il vento. Il vento la porta sul mare. Il mare è l’Umanità sempre in movimento. La memoria delle nuvole dov’è? Pagine meravigliose queste della Rosenberg. Mi riportano alla mente la scrittura di un’altra grande autrice del Novecento, Mariateresa Di Lascia, con il suo unico romanzo Passaggio in ombra : “La casa dove vivo, mi fu lasciata da mia zia (…) Con queste poche cose, io vivo, senza sentire alcuna privazione (…) L’una e l’altra preoccupazione mi appaiono inutili astrazioni, tanto indifferenti all’esito del mio destino quanto le stelle che splendono nel cielo.” (pag. 62)
Il terzo racconto “Canto del bosco masticato” di Graziano Turesso è un tuffo nella ricerca e nella rivelazione. Ricerca di un Dio che completi l’uomo e la sua natura di distruttore. Rivelazione di quanti danni irreversibili sta producendo la sostituzione del Dio contadino con il dio uomo, avvinto alla sua unica passione terrena:sopravvivere a tutti i costi, a tutti gli altri esseri viventi. La meditazione che ne scaturisce in questo dialogo tra scrittore e Natura è inversa a quei bei versi “O Natura, Natura perché di tanto inganni i figli tuoi”. I figli della Natura sono diventati gli aguzzini della Natura. I figli dell’uomo sono divenuti i peggiori esseri viventi su questo azzurro pianeta. Vuoi per quella che chiamano sopravvivenza. Vuoi che si autoconvincono di combattere i fenomeni naturali: gli uomini, non sono disposti a morire. Vogliono essere eterni. Potenti ed eterni. Poi quando il bosco (la Natura) diviene una belva e si ribella allora i figli dell’uomo si accorgono che è naturale morire perché il ciclo dell’esistere è così. Bella lezione questa di Turesso. Bella la sua espressione: “e qualcuno bisogna che di vergogna paghi.”
Bastasse la vergogna, saremo tutti nell’Età felice dei bambini. L’uomo deve ritornare bambino per attraversare la cruna della Stella più vera?
sabato 13 febbraio 2010
Su LA POESIA RACCONTA2
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