lunedì 21 dicembre 2009

Esasperato sacello…

di Paola Castagna

7 componimenti scultorei. Versi poderosi che lambiscono il misticismo e interrogano la vita scavandola nel profondo. (ar)

1

Esasperato sacello la pietra che custodisce il teschio dell’eremita.
Fu l’acqua a levigarla, dando sembianza a quel digiuno di secoli.
La cavità viene risucchiata dall’adipe.
Non posso più contare le particelle che delimitano la zona di preghiera.
Non resta che ficcare nella crepa il piede di porco, e fare leva.
Squarciato ogni contatto umano in chi solo restò
non curandosi della luce che miete.
Si sgretola la vanità.
Il profanatore ha già un sepolcro, quello che gli divora il petto.
I mercati attendono le reliquie, ma il sacro non dà più strumenti.
L’acqua ancora leviga e trasforma la consistenza di un fluire.
Catturato dai gregari del bargello, non può che urlare:
“ Io ho cercato!”
… mentre la forca lo attende.

2

Si specchia nel grande fiume.
La voce è quella del boia, e in essa trova salvezza.
Le mani sudate raccolgono ciò che persiste e rimane.
Inalterato il pensiero, non trova pace nel danno arrecato.
L’osso femorale lo sostiene, mentre l’apnea genera il flusso.
L’esecuzione formale devia il pulsare di un sangue ormai secco
che resta addosso, in questo logorìo che nomade conduce
tra stanze sature e canne palustri.
L’estramonio è sostanza effimera, solo la vendemmia offre magia.
Nella notte fonda il sapere, spalanca le gesta, seduce donne fertili.
Trasgressione ultima… i viventi esultano, per un cuore aperto.


3

Ora sono di Mantova, Ferrara, Ravenna.
La mannaia ha scorticato il tronco.
Piange la betulla violentata dal metallo.
I boscaioli affastellano rami circoncisi…
danno fuoco, urinano sulle braci del vento.
Odore di uccisioni giustificate dal mestiere.
Si screpola la mano calva, poi la pelle si rovescia
e resta ciò che la vergogna contiene.
Di solito il pioppo non resta immune e distaccato,
anche lui vive del simile, nello sfregio coronato dai ceppi.
Chi è esecutore non può concedersi indugio,
egli va per decisione, verso la polpa del legno.
Sfregola il piscio sulla fiamma, c’è anche chi versa il seme,
rito primigenio per assicurarsi il perdono della foglia di neve.
Da sempre si colpisce anche la radice, che lo strazio abbia compimento.
Novembre cancellerà le tracce, e ogni tronco andrà disperso
nella viscida e fangosa corrente.
Urina e sperma
per arrotare, quello che ci rende specie.


4

Paludosa l’essenza, le gocce, la rugiada.
Sfregiare l’immune, rende vittima la natura che abbonda.
Scorrendo nel letto del fiume
le foglie calpestate lasciano un pianto.
Indurisce il collo, mandato al patibolo.
La storia è come un altare,
riversata nel corpo, poggia sul ceppo lo strazio
confidando nell’ascia che le viene.
Tronco infestato, l’accetta tra le mani
indica i parassiti d’un sistema indecente.
Va la barca, nell’inguine del condannato.
Ci aspetta il ritorno, passata la chiavica di Stellata
oltre l’ansa di Poggeto.


5

La mano del nocchiero tiene il rasoio.
Sugli argini è il freddo che risveglia.
La testa appoggiata al ventre
succhia l’erezione del potere.
Freme la crosta terrestre, fulcro dell’universo,
equilibrio tra vita e morte, tra nebbia e delta.
La creta fertile viene mangiata a morsi.
Nel sangue la ricerca di un’indole che genera.
Ecco! Ecco il vagabondo irrequieto
che i rami aggroviglia e tesse le lucertole.
Urlare in quel buio che copre le anime
non fa che distanziare il battello
che porta nel mondo dei dispersi.


6

Ancora pregano un dio evirato
oltre il diletto, con membra gonfie, con voci in risalto.
Nessuna buona azione resta impunita
né determina un ricordo.
E’ il sacro che civetta col profano,
l’orgia incalza, tra zolle arate e fumo.
Lontano il canto di un fagiano.
Nel bosco la filosofia inciampa e resta muta.
Dalla pianta dei piedi al cranio
non c’è una parte illesa.
Le piaghe aperte le cura l’olio
mentre da te eliminerò il piombo
senza vergogna della quercia.
Arrossire nei giardini
come quella volta che mi prendesti nell’orto
parlando in dialetto, recitando il sapore dei segni
e il cantico dell’oroscopo.


7

L’ultima scultura odora di zolfo,
graffito d’un epoca accesa al silenzio.
Il simbolo è metamorfosi graduale,
è rana che gracida nello stagno adiacente.
Il ruvido del lenzuolo contiene l’immenso.
Fatica l’abbraccio, sul ponte dei custodi.
La madre rovescia la polenta
perché lui torna dall’esilio e dalla galera.
Medioevo e rinascimento cuciti assieme.
Il fiore di San Martino tocca il mio braccio.
E’ il primo passo di un arrivederci.
Il fiume cerca il mare
mentre la nostra terra
quello che si è perso.
Città di riviera, città solcate da onde e polene,
il vostro respiro mi rende vergine,
volpe che annusa l’antico e il nuovo
nello stesso tempo.

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