venerdì 6 novembre 2009

Lettera di Riccardo Burgazzi a Vincenzo D'Alessio sul senso della poesia

(grassetti nostri)

Gentilissimo Vincenzo,
ricevuto il tuo pacco, ho pensato di risponderti con una “lettera tradizionale”, che tanto si addice all’argomento che ci ha fatto “incontrare”: la poesia. Spero che la mia pessima calligrafia non rovini quel sapore antico che ha l’inchiostro e che la mia zampa di gallina – che lotto per tenere a freno, ma tra qualche riga emergerà – non faccia rimpiangere l’uso del computer.
È stata una piacevolissima sorpresa ricevere la tua recensione: Un cerchio di pietre raccoglie gran parte del lavoro che ho fatto in tre anni di “pratica poetica” e sapere che è stata apprezzata da un poeta già affermato paga molto.
Vorrei poter dire di “aver letto le tue pagine” (Giorgio Barberi Squarotti?! Lo conosco! O meglio… ho studiato due suoi saggi per un esame di Filologia Romanza), ma non ne ho ancora avuto modo; naturalmente lo farò presto, anche per vedere se abbiamo poetiche simili e, quindi, cercare di capire cosa può averti spinto a recensire le mie poesie, tra le tante di Legenda.
So poco di te e in realtà sono in difficoltà nello scrivere questa lettera. La cosa che mi preme di più è ringraziarti: corro il rischio di essere ripetitivo, ma il tuo gesto ha rappresentato molto per me, perché spesso mi ritrovo a pensare alla Poesia Lirica come a un’arte su un binario morto.
Quando a maggio, a Traversetolo, facendo una presentazione con altri autori, è stato chiesto da una signora “come mai scriviamo poesia e che senso abbia farlo”, tutti hanno risposto pieni di speranza e sicuri delle loro poetiche; io, invece, ho fatto presente che se il fine ultimo dello scrivere versi è “condividere momenti e sensazioni personali con chiunque abbia bisogno delle parole giuste per dare un nome a ciò che sta vivendo” (se poeta è chi dà un nome alle cose), a questo fine, oggi, arrivano meglio i cantanti: una persona triste, felice, arrabbiata, rilassata ascolta una canzone, non legge una poesia.
La poesia è sentita come lontana, erudita o banale… è ormai stereotipata.
L’osservazione non è piaciuta.
Ad essere sinceri non piace neanche a me, ma se qualcuno è arrivato a parlare di “morte dell’autore”, ci si poteva aspettare che altri avrebbero pensato alla “morte della poesia” (e quale epoca migliore per il liricidio, se non quella del telecomando?) e se la “morte dell’autore” era visione relativa, in quanto legata a una certa filosofia, la “morte di un genere” è più facile da argomentare, se non altro perché nella storia è già successo. Nessuno ha più scritto tragedie, perché nessuno, con l’avvento del romanzo, ha voluto più leggerne. Temo che la canzone (che si può ascoltare comodamente ovunque, senza la fatica di leggere) seppellirà la poesia (così come la conosciamo), che oggi molti ancora scrivono, ma pochi leggono: chi mai comprerebbe un libro di poesia? Anche chi è “nel giro” ha serie difficoltà a elencare cinque nomi di poeti contemporanei, nessuna a enumerare venti cantanti affermati.
Eppure, appunto, “se ne scrivono ancora” e ci sono più circoli poetici oggi che mai nella storia della letteratura.
Sì, ma le letture poetiche lasciano il tempo che trovano, non credi? L’autore di turno legge i suoi versi e anche l’ascoltatore più attento fatica a recepirli come si dovrebbe. Tutto scivola via.
Senza un testo sotto gli occhi, come fa la parola scritta a contare qualcosa?
Non mi piace seminare angoscia senza tentare una pars costruens; dunque ho pensato che una possibile soluzione per tener viva la poesia, sia farla tornare – come alle Origini – insieme alla musica. Se una lettura poetica venisse interpretata proiettando il testo alla parete e accompagnandosi con un sottofondo musicale, allora sì, allora quella sarebbe Poesia. Tutti potrebbero seguirne gli snodi, entrando nel testo, armonizzandosi con esso. Un maestro di musica, quest’estate, ha scritto i sottofondi per i testi del “Cerchio” e a novembre proverò questo tipo di presentazione, accompagnato da un’arpista. Funzionerà?
Mi hanno detto che ciò equivale a denaturalizzare il nostro genere. Al contrario, credo che questa sia la sua vera natura: i versi arrivano alla mente del poeta come una melodia che passa dagli occhi (“tutto è sguardo”), egli di fretta li segna, così come gli sono arrivati, per poi tornarci più e più volte, per mesi, per rifinirli. Ma manca sempre qualcosa, qualcosa che egli non è in grado di rendere: l’armonia con la quale si erano generate le parole in quell’istante. Manca il brivido che dà senso alla parola “paura”, manca lo stropiccìo che ognuno conosce nel rotolare delle foglie secche.
Mancano i suoni. La carta è muta, anche quando si contorce nei camini e – ironia della sorte – risuona la fiamma: ecco che la canzone (la strana marcia bisbigliata dal fuoco) ha ucciso la poesia, che resta cenere muta.
Quindi teatro? Ti confesso che mi piacerebbe adattare “Un cerchio di pietre” a un testo scenico. Come avrai notato la raccolta è divisa in quattro parti, le stagioni, partendo dall’estate: si tratterebbe, quindi, di inscenare un viaggio… ma allora sì, a questo punto sì che starei facendo un’altra cosa, denaturalizzando la poesia.
Niente da fare: non riesco a sconfiggerla, continua a rinascere dalle sue ceneri.
Osservando di nuovo la storia della letteratura, infatti, in vari momenti fu riavvicinata alla musica e poi da essa nuovamente separata. Questo da una parte mi avvilisce: i miei momenti di sconforto, in cui vorrei riuscire a farla finita con questo “genere discreto, delle piccole cose”, per passare a produrre opere di più vasto respiro (“nostos, to dolce lonh, delendum est”) e fruibili da più persone, sono una continua lotta coi mulini a vento. La poesia si salva sempre.

Da un’altra parte mi consola: la poesia si salva sempre! Anche nell’epoca del telecomando nessuno potrà impedirci di essere filosofici, bucolici, epici, erotici, romantici, ermetici e via dicendo.
Mi avvio a concludere allegandoti due inediti, per cercare, in modo seppur minimo, di ricambiare il tuo prezioso dono.
Non credo che questi due testi abbiano già raggiunto la forma definitiva, tutt’altro. Sono parte di nuovi progetti: un trittico di poesie in endecasillabi ispirate all’Africa (ahimè noterai che i contenuti hanno spesso ceduto ai vincoli formali) e una nuova raccolta, più ironica del Cerchio.
Di progetti ne ho sempre tanti: la maggior parte, però, non la comincio nemmeno. Spero di racchiudere tante idee in una storia, un giorno; ma sembra che non sia ancora pronto a scrivere qualcosa che non si traduca in più di una ventina di versi. Se mai ci dovessi riuscire, però, te lo farò di certo sapere e tu recensiscimi ancora: solo così la nostra fenice rinasce.

Hominem pagina nostra sapit.

Riccardo

3 commenti:

Alessandro Ramberti ha detto...

Il 6-11-2009 19:15, "gabriele quartero" (johnny4er@yahoo.it) ha scritto:

ciao,

ho letto con interesse questo commento, vorrei aggiungere qualche riflessione.
la poesia si salva sempre? non saprei. ma si può ancora parlare di poesia in modo univoco? in questo termine ci può stare di tutto, dai baci perugina alla poesia concreta, dentro la parola vuota si nascondo le più diverse intenzioni. io non la sento questa affinità "a prescindere" con gli altri poeti.

poi: si scrive con in mente un ipotetico lettore? per me no.
scrivere è come la punta di un iceberg, immenso intraducibile: ogni buona poesia deve essere un perfetto fallimento.

nella speranza che queste note confuse possano stimolare il dialogo...

a presto

gabriele

Alessandro Ramberti ha detto...

Riccardo Burgazzi (ricky3bc@hotmail.com)
Data: Sat, 7 Nov 2009 10:24:31
Ciao a tutti!
Rispondo qui perchè non ho trovato lo scritto di Gabriele online.
L'osservazione sull'uso generico della parola "poesia" è in un certo senso corretta e in un altro voluta (da me).
Il discorso sulla "morte del genere" è -come nell'esempio sulla Tragedia citato nella lettera- un'osservazione "sociologica"; perchè naturalmente la "poesia" in senso etimologico ("creare", "dare un nome alle cose") non può morire: è una proprietà intima dell'uomo, che ogni volta che parla, per il semplice fatto che sta nominando le cose, fa poesia. Faccio seguire un passo (BELLISSIMO) di Emerson:

I poeti fecero tutte le parole e pertanto il linguaggio è l'archivio della storia e, se dobbiamo dirlo, una specie di troba delle muse. Però, sebbene l'origine della maggior parte delle parole sia dimenticata, ogni parola fu in principio un lampo di genio e fu divulgata perchè in quel momento essa simbolizzava il mondo al primo parlatore e al primo uditore. L'etimologo scopre che la più morta parola è stata una volta una brillante pittura. Il linguaggio è poesia fossile. Come la calce del continente consiste di infinite masse di conchiglie di piccolissimi animali, così il linguaggio è fatto di immagini, di tropi, che ora per il loro uso secondario hanno da lungo tempo cessato di ricordarci la loro origine poetica.
Alla luce di questo, la poesia - nel senso più profondo del termine, più originario, il "dare un nome alle cose" - morirà solo quando ogni etichetta sarà vuota, ogni parola flauto di vento, quando nomina nuda tenebimus (pericolo apocalittico denunciato una decina di secoli fa e non ancora avveratosi, nonstante la tv commerciale!)
Poesia, per ora, muore solo in senso editoriale: ogni volta che Alessandro non vende insomma!

Poi sullo scrivere (poesia) senza aver in mente un lettore e sull'aver qualcosa di proprio che non ritroviamo negli altri poeti sono felicissimamente d'accordo (del resto ero d'accordo anche sulla prima parte, volevo solo fare la precisazione sul "senso della morte").

Grazie a entrambi!
Ricky

Alessandro Ramberti ha detto...

(da Gabriele Quartero)

è vero che la facoltà poetica è in qualche maniera connaturata al linguaggio stesso. la poesia pertanto vive e si rigenera attraverso i poeti. mi viene in mente un'immagine usata da Pound (cito a memoria sperando di ricordare esattamente): la poesia è come un nodo che scorre lungo una corda. se si accostano due corde differenti il nodo passerà da una all'altra. i poeti forniscono la corda.
Ho l'impressione che nello scenario contemporaneo molti nodi si siano come sciolti. Cosa ci resta della poesia? Molto spesso resta un guscio vuoto, un feticcio culturale da esibire.
ma A NOI cosa resta? quella tradizione entra nelle nostre vite, ci parla ancora?
noi che pensiamo di fare scorrere il nodo dobbiamo renderci conto di questo fatto. al di là dei meriti e delle ricerche personali credo che si sia chiamati a un compito difficile e ingrato, quello di rifondare la poesia, nonostante il mezzo, la parola, sia ormai logoro e inservibile. penso sia impossibile fare poesia senza mettere in discussione l'idea stessa di poesia.