giovedì 29 ottobre 2009

Su Il paradiso degli esuli di Gabriella Bianchi


recensione di Narda Fattori

“Il cielo è altrove / perso in lontananze abissali / disperse negli atlanti. / Cerco parole inutili / per misurare l’assurdo.”: così si chiude la prima poesia di questa raccolta della Bianchi e, immediatamente siamo proiettati in un mondo che ha perduto un suo originario significato e un suo chiaro percorso; si sta casualmente a ferirsi gli occhi, l’intelligenza e il cuore, su questa crosta che è il solo nostro destino e respiriamo caligini. Dio è lontano, forse è una fiaba, neppure più i bambini Lo pensano Padre amoroso. Ma pur con questa consapevolezza, la poetessa non cessa di invocarLo perché il cielo non si stanchi di piangere sulle malefatte dell’uomo che hanno trasformato i sogni di una bambina in putredini tossiche.
Non esistono luoghi di salvezza, l’Eden è definitivamente perduto, eppure a volte si è toccati dalla Grazia: un’erba luccicante di rugiada, una stella che nella notte sembra splenda solo per te, schegge di felicità trattenute come il più prezioso dei tesori e che di fa implorare: “Ricordati di me, dio dell’amore”. Ma il raziocinio ci ruba i sogni e la poesia che ci visita, rendendo più chiara la visione, trasforma la felicità in angoscia. La poesia è male e medicina, o forse né l’una né l’altra, è un bisogno che ulcera l’anima ma la disseta. Attraverso la poesia si compie un atto sacrale, una liturgia creativa, come afferma Gabriella; è un atto umile in grado di sollevare dalle piaghe di un’esistenza che alberga in terreni di nefandezze; ma non basta a volte “non c’è ventre di balena / per chi cammina nella cenere. / … / A volte la speranza / è solo una piuma insanguinata.”
Credo che questi frammenti rendano ragione del titolo della raccolta: il paradiso è esattamente il suo contrario, e gli uomini da esso sono allontanati, dal paradiso vero, e come esuli, portano come trafitture il desiderio di tornare che rende spesso insopportabile lo stare in un qui ed ora feroce, povero di pietà, dimentico della fratellanza. La poesia della Bianchi posa spesso il suo sguardo sulle fatiche ma anche sulle felicità di ogni giorno; dice di luoghi eternandoli, di vie, di città, di persone.
Pochi dimentica in questo suo percorso poetico e ne rende immagini vivide e trasognate, a volte proiettate in lontananze e citazioni bibliche. La sua consapevolezza dell’imperfezione è brutale, ma altrettanto ferma è la sua condizione di poeta, tanto da chiamarli a cospetto, a regalare il dono della profezia a coloro che, specie ibrida con le qualità dei bambini e dei folli, hanno scoperto il linguaggio universale, il gemito della Terra.
Lo sguardo attento e visionario della poetessa scruta nell’ “area di sosta” e sospetta che proprio lì si collochi la porta per l’oltrevita (pag. 68), tante sono le piaghe che la infestano mentre i poeti vanno, vanno, senza stancarsi. Somigliano molto agli Apostoli questi poeti che hanno capacità visionarie, che non si lasciano fermare, che rifiutano ogni sorta di lusinga. E vanno… vanno: “leggevo Emily / e volavo al nord / fino alla casa / del reverendo Brontë /… /… / oltre i quali si stendevano brughiere/ folte di poesia/ di silenzio/ e libertà.”
Penso che questo ricordo sia una sorta di testamento spirituale che si percepisce nei versi e nei compagni di versi, una confraternita di veggenti un po’ misera, ma intatta su piedi leggeri pur nel lungo percorso.

http://www.faraeditore.it/html/siacosache/esuli.html

1 commento:

gabriella ha detto...

Ringrazio di cuore la persona squisita che è Narda, il suo modo di percepire le onde della poesia, la sua chiaroveggenza. Grazie per aver distillato la linfa di questo libro (per me prezioso) dato il messaggio che custodisce. Se per me la poesia è la chiave di volta, è altrettanto basilare il riscontro del lettore critico. Narda legge e interpreta con un sonar speciale, qual è quello del rispetto e dell'attenzione anche per i dettagli. Grazie a te, Narda, e grazie ad Alessandro. Gabriella