martedì 27 ottobre 2009

Su Cocci d'ombra di Vincenzo Celli


Fara Editore 2009, € 12, scheda del libro qui

recensione di Narda Fattori


La poesia conduce il suo autore ad un’osservazione dei moti d’animo e delle pulsioni, ma anche dei minimi eventi nel tempo e nello spazio, levigandoli da qualunque scoria, di ogni alone sentimentale o rancoroso, depurando il vissuto fino alla trasparenza del cristallo. Mi pare che a questa meta sia giunta la poesia di Celli, così poco compiaciuta, così dettata sottovoce, così malinconica e refrattaria ad ogni illusione. Già il titolo contiene una tragedia insieme ad una grigia melanconia: cocci sono frantumi di un intero che più non esiste e l’ombra è il luogo dove non giunge la piena luce, traluce appena, non è oscurità neppure bagliore.
Così gli eventi della vita, lo scorrere del tempo e dei giorni con il loro bagaglio di minuzie sofferte o gioite, infine comunque perdute o abbandonate perché l’uomo ha sempre aspirazioni più alte del quotidiano farsi degli eventi.
“dell’infanzia ricordo l’assenza / e quelle scarpe passare / sporche di tempo e di terra/ quel mondo di vetro / così fragile così distante / dalle mie dita addormentate”: un’età fabulosa come l’infanzia è qui rivista come un scialbo transitare da scarpe sporche a dita addormentate, senza presa, quasi che i sogni, un tempo concreti e apparentemente a portata di mano, fossero sfumati o comunque le mani fossero diventate incapaci-impotenti a perseguirli, a saldi trattenerli.
E ancor più significativa l’ultima strofa della poesia successiva che dà ragione del titolo ma anche dello stare esistenziale di Celli: “almeno tu ci credi / a questi cocci d’ombra / che piano piano s’affogano nel sole / così fedeli ai silenzi dopo gli spari?”; dunque i cocci sono stati frammenti di luce che il dolore che attraversa il mondo manda ad annientarsi dentro la loro origine.
La luce ritorna spesso come tema e come veicolo di discorso nelle poesie; è una luce che non rimane, che con la sua fuga lascia in una stato oscuro e confuso, in una melanconia dolce perché da essa visitata.
Anche l’amore, incontrato si è trasformato in dolore: “sono morto al tuo fianco / come una spina.”
E tutti noi siamo “gocce di cenere al parabrezza di un sorriso – io e te – esagoni d’arte povera…”; eppure tanta tristezza succede per avere visto/immaginato un eden struggente di giochi e innocenze infantili; a viversi come questo tempo richiede si resta immobili, come su una giostra che per quanto giri vorticosa, mai si allontana dal suo centro, così il poeta resta appeso prima della partenza. Quale partenza? Quella senza ritorno?
Non c’è denuncia nella poesia di Celli, non è neanche un’elencazione poetica di disagio; la sua poesia mi pare come quello che è diventato chiaro-veggente: vede e sente sé stesso e il mondo, senza attese e batticuori, censisce con il linguaggio del poeta piccole storie che non saranno in grado di rendere grande nessuno perché la vita è un susseguirsi di stati d’animo, di incontri, di attese dal fiato breve; solo l’amore è in grado di smuovere questa apparente tregua di mali eventi, ma “se noi ci incontrassimo /… / e d’improvviso ci innamorassimo / così senza parlare / … / allora forse / potremmo pensare / di essere stati vivi / senza una ragione.”
La terra abitata da Celli è incrostata dai sogni ma apparecchia povere mense e l’uomo chi è in una questa ridda caotica senza senso? Un accidente del caso? Potrebbe essere questa la conclusione della riflessione del poeta, se non avesse scritto versi, alcuni dei quali molti belli, se non avesse linguisticamente spezzato la logica della sintassi e creato altro. Come un poeta sa fare, appunto.
Altra mensa, altro cielo, altro dolore.

http://www.faraeditore.it/html/siacosache/cocci.html

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