recensione di Vincenzo D'Alessio
La raccolta di poesie Il destino immobile nasce con una premessa dell’autrice: ”Sono stata adottata e questo mi porta a non sentirmi indiana né italiana” (pag. 13). Possiamo leggere nella nostra lingua il messaggio di una donna con radici diverse dalle nostre che si è inserita nella cultura e nella lingua della nazione adottante. Ad ascoltare la sua voce, nei versi, si coglie immediatamente l’uso di verbi nel modo gerundio: dal verbo latino “gerere” con il significato di portare (su di sé) le circostanze dell’esistenza. Un dualismo che affiora nel pronome Io e nell’uso frequente del sostantivo “occhi”.
Vengono in soccorso i versi di Cesare PAVESE della raccolta Verrà la morte e avrà i tuoi occhi come pure i versi seguenti della stessa poesia: ”Così li vedi ogni mattina / quando su te sola ti pieghi / nello specchio. O cara speranza, / quel giorno sapremo anche noi / che sei la vita e sei il nulla.”
La poetessa parte dal nulla e si accinge alla ricerca: “Lo specchio / mi regala la mamma / accarezzo il viso” (pag. 54). Seguire questi versi belli, acuti, taglienti come ho letto sovente in altre poetesse contemporanee quali Emilia Dente e Anna Ferrucci, di quest’ultima leggo: “Devo rubare parole alla morte / per anticiparla.” (Soglia, 1997), è appropriarsi di tutti gli ossimori, le antitesi, usate nei versi che compongono la raccolta. Quarantaquattro poesie, divise in tre sezioni, che regolano l’entrata e l’uscita da due mondi paralleli ma diversi.
I colori emergenti dalle poesie sono il nero e il marrone. La fatica per giungere a dire quello che veramente si avverte è scandita dalla pioggia, dalla neve, dalla paura, dal vento, da un “sole vecchio” che nel presente è una sfera, un orologio temporale antico e perfetto, che illumina il genere umano, l’Io di chi compone, e costruisce le ombre, la propria ombra, la propria fine appena nati. L’aquila danza con una rosa nel becco, una missione da compiere, ma manca la direzione. Figura allegorica che trae il sostentamento nella mitologia indiana. Tante immagini, metafore, e una certezza che svincola dall’accettare la morte come terribile sciagura: “Scrivere dei pensieri / nella speranza di perderli / conservandoli” (pag. 63).
Vorrei richiamare in similitudine un altro scrittore/poeta che ha amato l’India, Rudyard KIPLING, con una poesia scritta agli inizi del passato ventesimo secolo: “Così il tempo ognor cortese / con ognuno che sia, / ci rende arditi e ciechi / al pari del narciso: / tant’è che in punto di morte, / a sepoltura certa, / ombra ad ombra diciamo persuasi: / «Vedi come dura l’opera nostra!»”
La raccolta di MARAMPUDI è solo l’inizio di una salita che Massimo SANNELLI nella premessa ha dignitosamente rilevato: “La mente è solo strumento del cuore. Ma se il cuore ha paura nell’aprirsi, l’azione contiene in sé un’ambizione: la carriera di una mente verso ciò che non le spetta.”
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