di Massimo Pasqualone
Presentazione del libro di Ardea Montebelli, Ma il cielo ci cattura, Faraeditore, Pescara, Museo delle Genti D’Abruzzo, 11 ottobre 2008.
La verità.
Che cos’è la verità?
Un abisso che si veste di metafore,
il lungo abbandono del cuore
in attesa di un segno finale,
quel soffio che salva
come un grido di sollievo… (p. 19)
Il secondo testo della raccolta Ma il cielo ci cattura farà da filo conduttore ad alcune riflessioni, utili per comprendere il percorso zetetico e lirico della poetessa riminese.
La domanda delle domande sembra spesso rimanere inevasa, eppure – scrive l’autrice –
Una e una soltanto
è la verità
cui tende il nostro amore. (p.17)
Non è solo la domanda di Pilato in Giovanni 18,38, ma è la domanda di tutti gli uomini, siano essi filosofi, teologi o poeti.
Anagrammando il latino quid est veritas gli antichi commentatori traevano un responso: Est vir qui adest.
La verità non è qualcosa: quel soffio che salva /come un grido di sollievo… di pagina 19 è qualcuno.
Anzi QUALCUNO.
Molto significativamente, nell’Introduzione, Giorgio Bàrberi Squarotti scrive che «la poesia di Ardea Montebelli è oggi l’esempio più alto e luminoso della rappresentazione e della celebrazione del sacro… è come se Ardea volesse fondere un discorso poetico teso alla più sicura proclamazione della verità di Dio (…)» (p. 11).
In altre parole, con una sintesi teologica che solo Bruno Forte sa dare, «La verità che salva è partecipazione all’agape trinitaria, pensata a partire dalla discesa kenotica di Dio nelle tenebre del Venerdì Santo: è dono che suscita dono, vita che accende la vita.»
Per questo, a mio modesto avviso, si licet parva componere magnis, il cielo ci cattura, con quel ma iniziale: ma il cielo ci cattura.
Ho meditato a lungo su questa congiunzione avversativa: poteva essere omessa o sostituita con una e: e il cielo ci cattura.
Ma il cielo ci cattura è l’esito di una lunghissima meditazione interiore, della ricerca della verità che sovente si infrange di fronte al Male, alla banalità del male, per dirla con la Arendt.
Un male inesorabile e bugiardo,
il male che s’insinua nell’intimo,
offre tracce di alleanza
a lungo contemplate
nella oscura caverna dell’anima.
Ma il cielo ci cattura… (p. 49)
Il cielo della verità che si fa speranza escatologica, citata in Colossesi 1,5-6, attraverso un criterio di straordinaria ruminatio della Scrittura, ricordato da Paolo De Benedetti nella Prefazione.
La verità, dunque, che vince il male, che è dialogo con l’Alterità.
Non il cogito ergo sum di cartesiana memoria, ma il cogitor ergo sum, l’esisto perché Altri mi ospita.
Molto opportunamente De Benedetti ricorda che in ebraico verità si dice emunà o emet (p. 9).
Approfondendo il simbolismo delle lettere che compongono la parola emet (alef, mem, tau) il Midrash Genesi Rabbah degli inizi dl V secolo legge un’allusione alla totalità del mondo e del divino in cui consiste la verità: “Alef è al principio delle lettere, tau alla fine e mem al centro.”
Mirabilmente interviene la sintesi hegeliana della Fenomenologia dello Spirito: “Das Wahre ist das Ganze”, il vero è l’intero.
La carità.
La verità è poi amore che vuole essere detto in parole ed in opere, come ricorda il Salmo 111, opportunamente “ruminato” dall’autrice ed il testo a pag. 35:
Generosi occhi di madre
dividono con noi calore
spezzano il pane
e non ancora sazi
ci offrono ristoro,
stupore nelle sfumature
del bel volto,
passaggio di rondini.
I medievali ricordavano sapientemente la caritas capax verbi, il verbum capax veritatis, la carità si apre alle parole, la parola s fa capace della verità.
L’approccio cristologico alla verità, il QUALCUNO della parola proposto da Ardea Montebelli si fa ora azione verso gli altri, si fa ascolto che – per dirla ancora con Bruno Forte – “genera patti di fedeltà e suscita l’esodo da sé senza ritorno”.
Una verità extra nos ed allo stesso tempo ex nobis che
Udremo mormorare
tra le foglie…
rapiti dalla bellezza. (p. 41)
La bellezza.
Ecco il terzo elemento di questo itinerarium mentis in Deum: dopo la verità e l’amore che si fa carità arriva la bellezza, la prodigiosa bellezza / nell’anima inquieta degli ultimi versi di pagina 53.
Quella stessa bellezza che
Ci abbrucia
ci consola
riconduce alla vita.
Alla fine, quella irrequietezza dei versi di pagina 25:
Ora siamo presi
da uno stesso
unico sgomento:
un punto di domanda
misterioso e fragile
si quieta:
Mi consegno a Te
nel mare antico dei padri
e mi lascio condurre
alla quiete dell’anima. (p. 59)
Ardea Montebelli è consapevole del difficile cammino, perché
È un modo nuovo di parlarsi,
un’attesa di tutto il creato,
l’uguale distanza
fra mistero e bellezza. (p. 64)
e significativamente giustappone questi bellissimi versi al notissimo passo agostiniano delle Confessioni riportato a pagina 65.
Così come alle riflessioni vengono giustapposte le immagini degli eremi abruzzesi: il poeta, novello palombaro dello spirito, monaco ed eremita alla ricerca della verità, diviene entronauta, la poesia-preghiera si fa catarsi rigenerante, l’iniziale punto di domanda misterioso e fragile ha ormai la sua risposta.
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