lunedì 6 ottobre 2008

Sulla poetica di Caterina Camporesi in Solchi e Nodi

recensione di Isidoro Conte

Il parco del Castello Ducale di Ceglie Messapica, dopo una occasionale e memorabile apertura al pubblico nella seconda metà degli anno ’90 del secolo appena trascorso, è stato già luogo affascinante di serate di poesia. Nel solco di una giovane tradizione rinvigorita soprattutto nelle ultime stagioni, in uno scorcio di quel medesimo parco divenuto nel frattempo “il Giardino del Duca”, ha avuto luogo una bellissima manifestazione culturale caratterizzata dalla presentazione dell’ultima fatica editoriale di Caterina Camporesi: Solchi e Nodi, un libro di poesie che segue Poesie di una psicologa, Sulla porta del tempo, Agli Strali del Silenzio, Duende, che mutua il titolo da un saggio di Garcia Lorca. È stato designato alla presentazione non un critico di professione ma un docente di Latino e Greco, il sottoscritto, prestato, non so con quanto successo, alla necessità contingente.

Solchi e Nodi
Una lettura non superficiale dell’opera consente di comprendere le ragioni profonde di un titolo denso di significato; quel titolo e nessun altro può essere, anzi è, la sintesi della straordinaria capacità di introspezione psicologica dell’autrice, la capacità di penetrare a fondo nella propria anima ed in quella degli altri così come il vomere penetra profondamente nella nuda terra lacerandone la superficie per depositarvi poi un seme che dovrà produrre altra vita. La poesia di Caterina Camporesi diventa una sorta di medicina dell’anima e la poetessa medesima diventa quello che gli antichi greci (Plutarco definisce così sé stesso) chiamavano ιατρος της ψυχης. Caterina Camporesi nella sua vita professionale è psicoterapeuta: la sua poesia può considerarsi la sublimazione della sua attività professionale.
I solchi rappresentano le lacerazioni prodotte in noi dal nostro vivere quotidiano spesso drammaticamente tragico, lacerazioni che devono essere curate in modo che dalle ferite più profonde nascano delle forme di difesa, degli anticorpi, come dai solchi prodotti dal vomere e predisposti ad accogliere la semina, vengono prodotte, val bene ribadirlo, nuove forme di vita. I nodi sono le difficoltà, le resistenze, gli ostacoli che intersecano la nostra vita quotidiana e che non possono essere superati tagliandoli come Alessandro il nodo di Gordio, anche perché al contempo, come già rilevato da altri, rappresentano i punti fermi, la stabilità. Diciamo intanto che Solchi e Nodi, come peraltro tutta la produzione poetica di Caterina Camporesi, non è un libro distensivo come non è distensivo nessun tipo di poesia frutto di una macerazione interiore che si riflette inevitabilmente sui lettori che devono avere un approccio “senza distrazioni”, condividendo il tormento di chi ha prodotto quei versi.
Io non so se Caterina Camporesi, abbia studiato anche musica, ma condivido il pensiero di chi dice che la Camporesi scrive musica, che le sue parole sono come note musicali; sono una ricerca del sonoro e che è indispensabile leggere i suoi versi ad alta voce dando ad ogni singola parola “il tempo in battere e in levare”. Il libro non ha un proemio che sveli, suggerisca una chiave di lettura, ma vi è un distico che chiarisce la finalità della poesia: “luoghi e tempi nutrono / aprono varchi al nostro divenire”. Dopo questo avvertimento al lettore la poetessa leva il suo canto prestando la sua voce alle lacerazioni, ai drammi, alle ferite sanguinolente, cruente, che il male provoca quotidianamente in noi che sembriamo vittime di un “mistero che si infittisce con la nostra presenza non sempre giustificata nel caos che ci circonda”. Il male è uno dei temi ricorrenti nella poesia della Camporesi, così come quello dei misteri che circondano la vita, le cose, i gesti che un’anima banale non riesce a cogliere. Si insiste troppo, a mio parere, con il rischio di cadere nella ovvietà, che la poesia della Camporesi inviti alla riflessione, elemento che indubbiamente non manca, ma non di quella riflessione che sfocia in una sentenziosità gnomica, ma una riflessione che porta all’intuizione di una verità. Mi sembra giusto chiudere questa serie di brevi notazioni con le parole di Alessio Brandolini che con saggezza critica non comune esprime il significato vero e profondo della poesia della Camporesi: «Quello di Caterina Camporesi è un corpo poetico suadente e dalla rara forza educativa, fatto di ustioni, fuochi e buchi neri. Di calce viva che chiude crepe e ferite. Di fiotti bollenti che sgorgano dalle viscere. Di quel continuo annidarsi e annodarsi in se stessa, alla vita, ai ricordi, alla forza dei sensi e del pensiero filosofico. Senza certezze assolute né sentimentalismi perché alla quadratura del cerchio la Camporesi predilige “la sinuosità appuntita /del poligono irregolare”.»



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