lunedì 1 settembre 2008

Su Solchi e nodi di Caterina Camporesi


Recensione di Brunella Bruschi

Solchi e nodi di Caterina Camporesi è un libro che ho incontrato in contemporanea con l’autrice ed è stato, si può dire, il primo significativo approccio con la sua storia di donna e di poeta, se si eccettua quella epidermica simpatia che lei naturalmente suscita ed è subito foriera di curiosità.
Il libro rivela un interessante approdo della ricerca espressiva in crescente, biunivoca relazione con quella esistenziale, una delle ragioni fondanti della poetica, che dà corpo ad una proficua sperimentazione della parola concentrata e scavata, ripristinata nei suoi remoti nodi semantici e sonori, nei solchi della sua vocazione a farsi vita, come la vita a farsi parola.
«Il volto della terra / e il nostro / perde ogni giorno sogni / in cambio di segni / per la legge dell’entropia / prima o poi scompariranno / eternerai divina arte / sogno e segno?»
L’approdo è acquisizione dell’insanabile ferita, lucida e scarna epifania senza stupori, né aloni e compiacimenti, scabra nella distanza che l’autocontrollo e la fecondità poetica procurano in questo divenire incessante.
Lo scavo è nella materia che palpita lacerata, nei suoi elementi in perpetuo affanno, nel detrito della sua metamorfosi che, come il segno, è principio e fine, creta duttile e imprendibile, «scogli acri e molli».
Di questa materia è particolare espressione il vento che nella sua inafferrabile cinési ha un corpo di lucreziana memoria: «venti avvinghiati, venti in corsa affilano ali / a volti sepolti di stormi», in cui la rima interna che sembra voler esprimere solo il fatto che di lontano gli uccelli non si distinguono, suscita, invece, potentemente il senso della morte iscritta inesorabilmente nella vita.
Ancora: «Nuances chances danzano / sulle onde del vento / sillabano accenti / in nascenti lingue», dove “il corpo” del vento diviene esplicitamente la stessa parola.
Le tracce formali più indicative di questa sostanza poetica (immagine e pensiero) sono da rintracciare in alcune iterate occorrenze, quali l’addensarsi dell’immagine nel cortocircuito di due, al massimo di tre parole, che si potenziano in ampie stratificazioni semantiche, mentre acquista leggerezza disarticolandosi ai minimi nessi impliciti l’alterna ipotassi e paratassi.
Penso alla libertà inventiva a cui può dar luogo, ad esempio, l’accostamento di dee-idee, in cui la concentrazione di breve assonanza e consonanza è linfa di preziosi echi non solo mitologico-simbolici, ma anche di fresca, incisiva modernità: le idee come dee, le dee come idee…
Così ci si imbatte a volte in discrete germinazioni di termini omofoni e ossimorici che escludendosi generano aree di un silenzio pieno, capace di suggerire i comuni territori significativi e l’ampia gamma di referenti non detti, ma fluttuanti nelle maglie della poesia.
Uno degli esempi più complessi dell’incontro-opposizione tra semantica e fonetica è il seguente distico: «tra bocca di Dio e grida di io / nell’estrema discesa e ascesa» (bocca-grida, Dio-io, discesa-ascesa), in cui le antitesi e le contiguità traducono bene l’affanno a inseguire tra terra e cielo un “deus absconditus” che si aspira a raggiungere in qualsiasi modo.
In particolare sono frequenti accostamenti fra affinità sonore e distanza semantica, come causa caso, che danno luogo ad una parola conseguente (fine) e nell’assoluta destituzione argomentativa rappresentano con peculiare incisività la vexata quaestio delle causalità o delle casualità, del libero arbitrio o della necessità.
Un esempio altrettanto probante è nell’alchimia di piena (sostantivo) – pena, che fa fluttuare fino ad estremi orizzonti la consistenza cruenta di un πÓνοs corrispondente alla vita.
È un linguaggio contratto e intriso di lieviti fecondi, che nulla concede all’egotismo descrittivo o all’autoreferenzialità narrativa, mentre con pudore, con un accorto understatement, lascia che si profili il farsi della poesia, la materia che si manipola nelle sue alacri fucine.
A volte tutto ciò fa trasparire un sorvegliato divertissement linguistico, che richiama, a mio avviso, certe marcature espressive della poesia di Mariella Bettarini.
Comunque sempre ciò che il tempo ha scavato e annodato costituisce microcosmo e macrocosmo dei vuoti, delle lacerazioni, dell’assenza e laboratorio dei segni che replicano l’incessante incremento del tempo aspirando alla sua scultorea eternità.
Così la scrittura percorre i viluppi, le intricate, sommesse contraddizioni, le concave e convesse rarefazioni e densità dei corpi che albergano pensiero e palpito dell’universo e del nostro essere, tendendo alla minuziosa decifrazione, nel contempo nutrita di un autocontrollo che concentra e sottende il più doloroso dettaglio.
Il titolo, per così dire, duale, che fa pensare all’endiadi, la struttura metrica fondata sul distico (espedienti che accostano e distinguono, creano pause e spazi di moltiplicazione) e soprattutto le componenti espressive tutt’altro che facili e orecchiabili di questa raccolta mi fanno pensare ad un libro che amo molto: Istmi e chiuse di Eugenio De Signoribus, un grande poeta marchigiano che, tra l’altro, è stato appena insignito di un prestigioso riconoscimento, il Premio Viareggio, per la sua opera omnia.
Citandolo mi auguro di portare fortuna al talento di Caterina Camporesi.

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