lunedì 8 settembre 2008

Su La carne / El sueño


Recensione di Maria Lenti uscita ne «il grande vetro», anno XXXII, 189 (83), marzo-aprile 2008

Gladys Basagoitia, La carne / El sueño, Prefazione di Mariella Bettarini, Postfazione di Antonio Melis, Fara, 2007, pp. 168, euro12.00 (testo casigliano a fronte)

Se si cerca nella poesia, insieme ad altre, la via di congiunzione, di relazione, tra la parola e il mondo, tra il corpo e la ragione, tra la veglia e il sogno, tra il senso da cercare e il senso non trovato, ecco, la poesia di Gladys Basagoitia sembra offrirle: una o tante, a seconda dell’inclinazione e dell’apertura del libro.
Che si presenta ricco di sfaccettature, a cominciare dal titolo La carne/El sueno e, quindi, dalle due lingue, l’italiano e il castigliano, entrambe con risvolti di ricerca in un lessico che sia il meno concreto possibile dentro l’astrattezza esistenziale e di pensiero, o, viceversa, il meno astratto possibile dentro la concretezza.
Una contraddizione? No, perché quando nomina, ed è solo un inciso, il corpo sottoposto a cure dovute, la poesia ricorre alla necessità di farsene carico del vivere e quando le attese, le perdite, gli incanti finiscono, la poesia vira sull’urgenza di salvare il tutto la memoria.
È una caratteristica di questa poetessa che, provenendo dal Perù, ha scelto l’Italia e l’Umbria come sua seconda terra.
Delle sue origini e formazione la poesia contiene la carnalità, cioè il sapore delle cose della vita avvertito con il corpo, quel colore trovato anche nei poeti della sua America Latina, passati o ancora viventi, come César Vallejo, quell’aderenza alle radici che è tanta parte di chi in quella terra ha dimora, anche solo sentimentale. E dunque l’energia della nascita e la forza nell’incontrare le cose della vita.

Dalla terra d’adozione o d’elezione, ma direi anche dal suo essere biologa, Gladys Basagoitia trae l’attenzione al particolare, agli interni della sua anima, la sosta nell’analisi di sentieri difficili da percorrere, perché insidiosi nella loro verità, non aggirabili.
E, in questo universo-mondo, una costante: le persone dell’intorno, le persone del cuore, quelle della relazione in-terminabile, la mano allacciata all’altra vicina, la ricerca del sodale, dell’amica perché la pace sia reale e non flatus vocis. Moltissime sono, infatti, le poesie dedicate. Ma, pur senza dedica, il “tu” ricorre non come risvolto dell’io, quanto davvero come rivolto ad un interlocutore/un’interlocutrice cui rimettere un’idea di sé, un proposito, un proponimento, un desiderio che tornino, se possibile, come comunione d’intenti.
Gladys avvicina la realtà ma ne dice anche il possibile essere: sempre che la carne e il sogno siano in congiunzione, che il sogno sia non altro dal sentire del corpo (dalla carne). Vi si scorge il senso della vita che non soggiace alla pur inevitabile fine e che dimora nella continuità sentimentale.
Vi si avverte la vicinanza ai poeti della sua lingua, la consapevolezza della donna che dà la vita, esprimendone, se la realtà chiude cerchi, il desiderio.

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