lunedì 4 agosto 2008

Su Padri della terra di Vincenzo D'Alessio



recensione di Teresa Armenti

Quando si parla con Vincenzo D’Alessio, si nota subito la semplicità, l’umanità, la disponibilità ed una carica di energia culturale che ha necessità di manifestarsi. Qualsiasi argomento si tocchi, dall’archeologia alla pittura alla letteratura, lui è pronto ad approfondirlo, ad inserirlo nel contesto storico con i suoi personaggi ed i suoi eventi.
Qualsiasi aiuto gli si chieda, lui è veloce nel donarsi.
Lo si può definire “Il Mecenate del Sud”.
Le sue pubblicazioni di storia sono chiare, lineari, ma la sua poesia incute un timore riverenziale, perché sa di sacro. Ci si accosta ad essa in punta di piedi. La prima lettura lascia disorientati. Si ha bisogno della chiave giusta. Occorre saper togliere il velo e scoprirne il ritmo. E allora si svela nella sua interezza con un sottofondo musicale, che intenerisce i cuori. Deve essere il lettore, però, a scoprirne le pause, a sostare per riprendere fiato o andare più veloce, seguendo le corde dell’animo umano che pizzicano a seconda dei momenti, perché la poesia di D’Alessio è particolare, senza titoli e segni di interpunzione. Allora, quando è entrato in sintonia, il lettore si immerge in un mondo che avvolge, sussurra, sprona, sprofonda ed innalza; nell’ascoltare “la gravità delle parole: essenze che profumano l’esistenza nel calore”, vede l’uomo solo che cerca amore dove è il cielo; sente il canto solitario dell’uomo del Sud che lotta un’esistenza intera per redimere l’Amore. Il tema del “pensiero meridionale forte ed umano in cerca di libertà sempre negata” è ben espresso nella raccolta I padri della terra, seconda classificata nell’antologia Pubblica con noi 2007 di Fara Editore e premiata a Pratapoesia.
Il florilegio, che comprende poesie composte dal 2005 al 2007, è un po’ diverso rispetto alle precedenti pubblicazioni, perché si manifesta con più facilità ed è diretto agli affetti familiari, alla moglie Raffaela, che sa donare l’orgoglio della serenità, al figlio Antonio, che vuole vivere verità e poesia, a Pietro Maria al quale può cedere pezzi di carta, al padre, che spinge lontano il grido insabbiato, al nonno Vincenzo scomparso in fretta dal mondo. Non mancano riferimenti alle amicizie intessute sui sottili fili della cultura, ed ai poeti della Lucania, come Rocco Scotellaro e Leonardo Sinisgalli. Emerge su tutti la figura di Dante Alighieri che piega le stelle al suo timone.
D’Alessio è il cantore del pensiero meridionale, si immerge nel paesaggio, ne respira il profumo antico, piange la fine della civiltà contadina, invasa dal cemento, combatte l’ipocrisia, segue con ansia e trepidazione i giovani emigrati del Sud, “pietre staccate da montagne”, si scaglia contro i politici, ed esalta il pane di Montefusco.
Egli affida al canto l’ingiustizia ed ai versi l’innocenza della speranza.
Che cosa è il Sud per D’Alessio?
Il Sud è “una terra antica di oltraggi, è un arido deserto meridionale nero, senza anima viva; il Sud ha sapore di ruggine e di tradimenti. E’ terra rimasta vera solo nei suoi pensieri”. Il Nostro, comunque, è tenace, non si arrende, “filo di speranza lieve che si apre al mondo clandestina”, “cammina senza stancarsi fino all’oasi che disseta amore”; ai piedi del monte Alpi, a Castelsaraceno, davanti ad uno stagno, sente fremere sotto i suoi passi il dio che tace e sversa nell’iride sale, perché avverte la presenza degli avi della stirpe sannitica, che unisce la Lucania all’Irpinia. I Padri della terra non lo lasciano solo, lo seguono lungo gli argini dei solchi in cerca del verde, attutiscono l’urlo del male e negli occhi dei bimbi gli fanno vedere le luci del mondo, per illuminare il cielo di domani, popolato dalle nuvolette bianche “dei bambini e dei poeti che sorridono alla libertà”.

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