giovedì 31 luglio 2008

Su Le mie scarpe sono sporche di sabbia anche d'inverno


di Stefano Leoni

“Ma non si chiama amore – dicono – /una cosa così”, scrive Stefano Bianchi a chiusa di una delle poesie della sua ultima raccolta Le mie scarpe son sporche di sabbia anche d’inverno, edita da Fara Editore. E questi versi credo suggeriscano una delle possibili chiavi di lettura.
L’autore parla d’amore, di rapporti con il prossimo, di giornate che scorrono, di personaggi innestati nel paesaggio della propria città e lo fa utilizzando un linguaggio che rimane in bilico, alternando una descrizione distaccata a un sottile impatto emotivo. Come guardare le cose, anche le proprie, da un punto d’osservazione esternizzato, opacizzato quasi, che permetta all’osservatore di passare i messaggi, anche quelli del proprio ambito personale, con la distanza che occorre a renderli principio e non cronaca.
Anche il rapporto con l’amore di coppia pare a tratti lambire il disincanto, che comunque permea l’intero libro e oserei direi diventa visione persino asessuata. Non ne scaturisce la passionalità, il trasporto, il desiderio: la visione è sempre quella seguente, il dopo, l’abitudine, la fine, il ricordo.
Il punto di vista, appunto, di chi osserva le vicende non nel momento della loro esplosione vitale ma nel rendiconto fintamente a-sentimentale dell’accaduto.
Anche l’amore, come le altre immagini evocate, diventa un parlare a se stessi, una interrogazione di sé a chiedersi cosa valga davvero la pena vivere per contrastare l’inevitabile; il tu, l’altro da sé cui l’autore si rivolge o che descrive è un filtro per tentare di comprendere la propria esistenza, i propri sentimenti, per indagare i propri segreti e supporre che la verità, e la serenità conseguente, non abitano il quotidiano ripetersi dei gesti.
Il linguaggio usato tende a fare a meno della metafora, prediligendo una sequenza visiva delle vicende, il verso si fa dimensionalmente irregolare, trovando una musicalità propria nel linguaggio sussurrato col filtro di in una intima introspezione, contraendosi ed espandendosi laddove si renda necessario descrivere una immagine per poi definirla con un aggettivo o un sostantivo e fissarne il significato.
Trovo in Stefano una tenera timidezza di vivere che a volte si fa rassegnazione, addirittura malessere in versi forti come nella poesia I due vecchi dove “… il male che li porta / è questo tumore d’esser nati /…” oppure rassegnata impotenza come nella poesia Il dubbio dove il poeta afferma “…// Che non c’è colpa od errore se un viaggio finisce / è solo tempo che passa ed è passato. //…” o senso di incapacità a godere della bellezza come in Giornata n. 8 quando giunti alla notte sale la “… paura non aver vissuto che un film e da / comparsa / non essersi accorto degli sguardi / …”.
Eppure complessivamente in questa raccolta si scorge come Stefano in fondo sappia dove si nasconde ciò che da un senso preciso alla esperienza dell’esistenza, quello che giustifica i gesti, le piccole mète: “Quel che sei non è / se non riflette gli occhi di chi guarda.”
Quindi l’amore e la stima degli altri, gli amati specularmente, divengono ciò che può dar spirito vitale alla vita stessa.
Rimane la curiosità della scelta del titolo del libro: prima di leggere le poesie contenute si può pensare ad un omaggio alla città dove è nato e vive, Rimini, a quel mare che fisicamente e metaforicamente è sempre presente in chi è figlio di una città costiera. Poi però viene il dubbio che le scarpe “sporche” sempre di sabbia indichino che il poeta si senta di camminare su un terreno che pur nella sua delicata e suadente consistenza è per sua natura instabile e destinato a modificarsi, corroso dal mare, terreno dove le impronte lasciate possono essere cancellate o modificate con facilità dai venti e dall’acqua.

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