giovedì 31 luglio 2008

Su Poemetto dei bambini di Giovanna Fozzer


Edizioni Polistampa, Firenze 2008, pp. 48, € 6

recensione di Sandra Di Vito

Poemetto dei bambini è la più recente raccolta di Giovanna Fozzer, foce in cui confluiscono acque poetiche, narrative e critiche dell'autrice. Il volume raccoglie, oltre al poemetto eponimo, il racconto Estati e inverno, che si apparenta al genere di narrazione lirica proustiana, e un testo (esplicativo o autobiografico) Sul poemetto e sul racconto. La prefazione è di Gennaro Mercogliano.
Il poemetto è composto di trentatré strofe, disuguali e di metri vari, intervallate da dodici brevi ritornelli di due o al massimo quattro versi ciascuno, in cui prevale la ripetizione con variatio: Tu canti nel cuore/ piccola voce di fanciullo - Tu canti nel cuore/ creatura gioia-serena (rispettivamente primo e secondo ritornello). Quasi ogni strofa corrisponde ad un cortometraggio che si snoda come un'orazione di lode, il cui segno stilistico distintivo è l'enumerazione incontrollata, «forma del linguaggio liturgico», «correlativa all'ebbrezza spirituale che travolge il lodante» – secondo la definizione proposta da Giovanni Pozzi (L'alfabeto delle sante, in Scrittrici mistiche italiane) – ed elemento di continuità con l'opera precedente dell’autrice, Repertorio d'infinito. Anche qui gli occhi sono l'organo conoscitivo e creativo privilegiato, da cui sgorga la poesia del poemetto e del racconto lirico. Occhi che, come le arcate di un ponte, vedono e lasciano vedere pezzi di cielo, di terra, «occhi di elezione, dato che scoprono e rivelano», come direbbe Maria Zambrano: che qui mostrano, in trentatré sequenze, il regno dei bambini, oggetto reale e mentale del guardare.
Per lo più, bambini si vedono/ per un attimo solo, per via: volti/ d'infanzia, dal contorno addolcito,/ occhi sovente incantati, distratti/ tra il sonno e il vedere-senza-sapere/ il mondo scorrere ignoto.
Il guardare è proprio di chi ha elaborato in sé il distacco, attraverso uno spossessamento – l’esperienza interiore del pensiero mistico speculativo, che traluce nell'intera opera dell’autrice. Il non-possesso, che scaturisce dalla morte dell'io psichico (già testimoniata nelle poesie cosiddette eckhartiane della raccolta precedente) e dalla nascita del vero io, quello spirituale: Mai ha fine il sogno/ di contemplare, ascoltare da vicino/ senza esserci, senza interferire/ con la vita-vita di creature iniziali;/ o forse,/ essendoci con uno sguardo lieve/ di simpatia, di amore-libertà. Lo sguardo lieve, senza possesso o appropriazione, rimanda indirettamente al pensiero di Margherita Porete, o al Maestro di Turingia: «L'uomo distaccato, l'uomo nobile cammina in questo mondo perfettamente in patria nel presente come nell'eterno, ma insieme assolutamente estraneo alle cose, non nel senso di indifferenza o disinteresse, ma nel senso di non avere appropriazione».
Frutto maturo di ragione mistica e passione, Poemetto dei bambini ha le sue radici nelle opere precedenti. Svuotata la mente dall'ingombro dell'io c'è il ritorno all'infanzia, nel poemetto come in Estati e inverno: racconto «dell'antica felicità infantile a Vigolo Vattàro, nelle lunghe vacanze estive». Lunghissimo ponte del tempo/ verso l'infanzia scriveva l’autrice nel breve testo Attesa (Un tuffo al cuore, 1998). Ma riferimenti al regno dei bambini si trovano sparsi in tutta l'opera: già nella prima silloge, Piazza d'Orbetello (1987), nel componimento dal titolo A un bambino molto amato, leggiamo: Di quel pianto/ (dell'esser nato/ dice il poeta amato)/ consolato t'avrei giorno per giorno. In Senza perché (1997) il poeta istituisce un'analogia tra i santi e i bambini: Sono i Santi/ come bambini innocenti. Opera dunque non di rottura ma di continuità, come ha sottolineato Mercogliano nella bella introduzione al Poemetto.
La continuità si tocca con mano non solo nell'oggetto reale e mentale della contemplazione e della memoria, ma nell'aderenza al reale, nel conoscere anche attraverso il soffrire: Siamo stati roccia d'accoglienza/ d'infinito dolore, orrore sofferto narrato (4 ottobre, componimento presente ne La forma quieta, 2001). Questa via di conoscenza accomuna tutte le raccolte poetiche e narrative dell'autrice, e fa di una poesia apparentemente narrativa e descrittiva una poesia eminentemente spirituale, non nel senso dell’avere, ‘avere fede’, ma nel senso dell’essere, l’eckhartiano e poretiano ‘essere nell'essere’. Il regno della visibilità, senza annullare la sua realtà oggettiva, si fa ponte del celestiale. Non a caso “azzurrità” è parola-ponte che ricorre in tutta l'opera poetica della Fozzer, e chi più di un bambino, dei santi e dell'artista, capisce che – come anche scrive Anna Maria Ortese in Corpo celeste – «il mondo è un corpo celeste, e tutte le cose, nel mondo e fuori, sono di materia celeste»? Attraverso gli occhi, contemplando a distanza, il cuore-culla accoglie così in un abbraccio cullante ogni creatura del creato a qualunque regno appartenga, anche le creature disamate e terribili a guardarsi: vi sono bambini/ già adulti, aggressive/ le pieghe del naso, del volto; tragici/ occhi già duri, lontani. Come/ guardarli?
Tu ardi nel cuore, creatura disamata



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