lunedì 6 agosto 2007

Da i grani del buio di Chiara De Luca


Sono lieto di pubblicare queste nuove poesie di Chiara De Luca caratterizzate, ci pare, da un lirismo oggettivato (anche dall'uso di flash-back) e da un linguaggio montato con umile sapienza francescana e sensibilità salingeriana nell'anatomia della violenza e del dolore: «Perché la pelle nuda da sola non riscalda, / avvolgersi del manto generoso dell’infanzia / accovacciati in fondo a una tana condannata (…)»

altre poesie di Chiara De Luca qui

Abwärts wend ich mich zu der heiligen, unaussprechlichen, geheimnißvollen Nacht. Fernab liegt die Welt – in eine tiefe Gruft versenkt – wüst und einsam ist ihre Stelle. In den Sayten der Brust weht tiefe Wehmuth. In Thautropfen will ich hinuntersinken und mit der Asche mich vermischen.

(Mi distolgo e mi volgo verso la sacra, ineffabile, misteriosa notte. Il mondo giace lontano – perso in un abisso profondo – la sua dimora è squallida e deserta. Malinconia profonda fa vibrare le corde del mio petto. Voglio precipitare in gocce di rugiada e mescolarmi con la cenere.)

Novalis



Stipiti acuti di voci negli anni
spuntati sul loro cammino
confusero al buio il disegno
disfecero i tratti, sfumarono i toni
di un mistero venuto alla luce volgare.
Lei lo portava nel ventre racchiuso
come un uccello straziato,
strappate le ali vibravano ancora
nella terra arrossata sul fiume…

Muove le gambe di bimba e procede
a tentoni nel grigio.
Irrigidite dal freddo
le ciglia imbiancate dimezzano il buio.
Muove le gambe più forte
ritmando il variare del cuore,
il fiato che la precede di poco
ampio si riapre al passaggio.
Degli alberi resta agli occhi la base
in alto le braccia in un tuffo al contrario
nella calma inquieta del cielo in bonaccia.
Onde di vento vorrebbero alzarsi
stracciare il velo, dissipare il gelo.

Lei muove le gambe di bimba e procede.


Lui prese a scavare battendo impazzito
avrebbe voluto squarciarle
rabbioso la gabbia del petto
a colpi violenti di becco.
Sbarre di costole inclinarono molli,
non cedette la porta del ventre.
Le ali, le ali fluttuavano a pena.
Lei aveva indossato il sorriso
schivando punte taglienti di voci
a rimestare fango infuocato.

Lei muove le gambe di bimba e procede
si lascia avvolgere dentro le pieghe
di cielo grigio disceso che aperto
accondiscende al passaggio.
Nebbia potrebbe partorire ogni cosa.
Si apre lo spasmo in condensa di acque,
il fiato disegna profili di mani,
nasce in sordina la sera sporcata
scrivendo sul corpo troppo in fretta la vita.
Lei sa che sua madre l’attende nel freddo
avvolta dentro un cappotto
nell’auto che nebbia rilascia
ogni volta a sorpresa al ritorno.


Aveva indossato un silenzio attillato,
custodendo il cuore nella distanza,
lasciava che il tempo le riscrivesse
un corpo che nessuno avesse sfogliato.
Avrebbe voluto lavare la pelle,
versare i ricordi nel buio,
avere sete di nuovo,
bere alla sorgente pura
d’una profonda fonte futura.
Essere letta dalla fine al principio,
libro che nessuno avesse spogliato,
saltando di pagina in pagina
confondendo tra loro i capitoli,
tracciandovi a mano note sui lati
negli spazi rimasti intentati,
geometrie di parole non ancora tracciate.
Qualcuno che con le mani di un cieco
sul braille del passato si lasciasse guidare
ad aprire nel centro con gesto sacrale,
sentisse la carta,

la pelle e il suo odore.


***

*
Abbiamo aperto i boccaporti del buio
a farci caldo solo di pensiero,
entra freddo nelle parole
nudate del senso fino al silenzio.
La mano me la strappi di mano
mi chiudi in un angolo e torni
a forzare il fiume dentro un bicchiere.
Faccio pressione sulle pareti
di vetro scompongo frantumi:
acqua si divincola, e cocci.


*
Ciò che tiene è il canto della pioggia
rappreso dentro anfratti di memoria
il gusto impercettibile dell’acqua
in punta di lingua sull’amaro del presente.
Ciò che ancora attende e spinge oltre
l’alta diga ad arginare il tempo
è che il cielo non può trattenere
all’infinito il fiato prima di scoppiare.


*
I grani del buio sono mille
occhi chiusi che prolungano
la mente ad osservarsi nel tramonto,
ci salvano le scene della fine
sotto lo spergiuro delle assenze,
odi si cibano d’attese
allo scongiurarsi dei ritorni,
volute di giorni circoscritti
nell’andirivieni delle notti,
ascoltale piangersi di gocce
le mani del cielo sparse in palmi
sui vetri a disegnare polpastrelli
nell’immaginazione di bambini,
quando si spuntava come fiori
da sotto le coperte a festeggiare
l’insolvenza del male il capolino
d’un raggio tra le assi lievemente
discoste degli infissi alla finestra,

e per disattenzione un ventre d’ala.


*
Snocciolo
come un rosario le nocche,
li vedi i sentieri che abbiamo
lasciato la ghiaia che scricchiola
sotto la pelle tornata
insensibile al taglio
profondo dei giorni.
Fasci di canne ingrossate
sembrano aver prosciugato
il vanto guerriero del fiume…
Blocchiamo le zampe sottili
in corsa d’un lampo e due anni
d’acciaio in ostacoli
ci hanno spezzato i ginocchi.
Il tuo nome è un prisma infinito
riverbera sillabe che ricombino
a chiamarti, e ogni cosa.


*
Ci fascia a fiotti l’aria del mattino
mentre estenua l’eco e insiste voci
gravide di buio a ripercorrere
il cerchio delle notti abbandonate
con le mani stolte ad intrecciarsi
piantando nella carne la speranza.
Si è aperta in qualche modo la stagione
dal catenaccio lento dell’inverno
che non ha irretito le ali in cerca
non ha fatto ghiaccio da spaccare.


*
Contesa tra salute ed ossessione
procedo sollevata verso il varco
che a sera conduce nella terra
dove rifugiati i desideri
danzano sul filo delle regole
su cui ho costretto i piedi
al tuo comando.
Più facile centrarmi in traiettoria
rettilinea come il non sapersi
– ma ho rubato gli occhi
d’un passero in paura
fermi nello scatto appena prima
del volo per spiccare la salita –.
Intercetto i passi del ritorno
nel vorticare pazzo di derive.
Si fondono le ali per protervia
gettandosi in ciò che più somiglia
al sole: l’incendio d’un abbraccio
per sfida dimentico d’inverno.


*
Ci vorrei stanotte ritornati

animali prima del diluvio,
lasciarci il coraggio di un approdo
sicuri incastonare la prua della nave
nella sconosciuta baia del vissuto.
Raccogli naufrago nel vento il mio sbandare
agitarsi di mani appese a rami emersi,
appuntando gli occhi brancolanti ad una cima.
Perché la pelle nuda da sola non riscalda,
avvolgersi del manto generoso dell’infanzia
accovacciati in fondo a una tana condannata
dove il gioco lento è scivolato nel massacro.
Riapriamo nella carne cicatrici per leccare

animali prima del diluvio.

13 commenti:

red maltese ha detto...

che dire... intanto un gran bel saluto a chiara e al padrone di casa.
sul serio dico che sono bei testi e che chiara non ha nessuna difficoltà a cambiare registro e modus operandi, segno di maturità poetica.
red

Chiara De Luca ha detto...

un salutone, red, e grazie mille. questi testi sono frutto di tutta una ricerca di quest'anno, grani tirati fuori dal buio, e nel buio si vede meno chiaro, dunque bisogna trovare altre parole, faticarci sopra un bel po'... così, dopo aver cercato a lungo la chiarezza nelle precedenti poesie, l'ho distrutta :-)

Chiara

Simone Lago ha detto...

Non lo so; sento il ritmo molto serrato, con versi compatti ed omogenei; forse troppo cadenzate addirittura le prime strofe di questa silloge, con quel ritmo ternario che non concede via d'uscita. Dal punto di vista tematico sembra quasi che qualcuno o qualcosa stia tentando di ricondurti all'ordine, anzi, ad un più coercitivo ordine che, pur non sentendo tuo, accetti e quasi subisci. Quest'ordine imposto poi cerchi di razionalizzarlo, di governarlo con gli strumenti che sono tuoi, della poesia; da qui la regolarità asfissiante del verso, che solo verso la fine lascia spiragli aperti alle sorprese.
Commento forse improprio il mio, ma ho preferito la modulazione della voce sui tuoi precedenti testi.
Ciao
Simone

Alessandro Ramberti ha detto...

Dato il tema non proprio idilliaco di questi versi, trovo invece molto interessante la scansione molto ritmica e regolata di queste poesie: credo che Chiara stia raggiungendo una interessante e per me riuscita (per quanto sempre limabile e perfezionabile) sintesi fra una forma suadente e rigorosa che sembra cullare (ma nel senso della diminutio di una phoné che si sente avere un fondo petroso e acuminato) un messaggio per più "versi" straziante. Mi pare che anche tu Simone ricorra a una strategia simile, declinata forse più sul piano lessico-sintattico che su quello ritmo e del suono.
Spero di non aver sproloquiato troppo ;)
Anch'io trovo particolarmente sfidanti in questa mia fase forme rigidamente chiuse per quanto giocate con una certa ironia e, nella lettura, dando una certa importanza alla punteggiatura che spesso sovrasta la rima.

Chiara De Luca ha detto...

caro Alessandro, grazie del commento, che mi ha preceduto... mi trovo molto nelle tue parole e nella ricerca che attui nelle tue nuove poesie. e grazie a sinome, nessun commento è fuori luogo. sono anzi contenta che tu abbia apprezzato le mie poesie precedenti e non è detto che quella modulazione non torni nel momento in cui tornerò a parlare di quelle tematiche. è una vena parallela, che ora non pulsa. perché in effetti il tema dei "grani del buio" non è dei più idilliaci, e purtroppo non me l'ha prestato nessuno (ho preso in prestito soltanto l'immagine dell'uccello ferito, da Brassens, "Il n'y a pas d'amour heureux", featuring Aragon). e il tema è una ossessione claustrofobica, senza via di scampo, appunto, e senza controllo razionale, anzi, è uno scavo nel magma d'angoscia. occorreva dunque una forma che in qualche modo controllasse e contenesse. non ho abbandonato di proposito il mio modo di scrivere di "furioso bene" (la raccolta precedente), mi è venuto spontanea una nuova forma, perché la chiarezza, il respiro ampio, l'apertura con cui ho potuto descrivere le mie città, le mie persone, il mio quartiere non potevano dire questo tipo di tematica, così come la lingua di queste poesie dei "grani del buio" non era adatta a dire la luce delle mie persone, delle mie città, del mio quartiere. qui è un materiale più interiore, in cui anche la realtà esterna è trasfigurata dalla nebbia e dal buio, di cui le poesie sono grani, ovvero quello che emerge...

Chiara

Chiara De Luca ha detto...

... grazie a SiMoNe, volevo dire

Ciahra :-)

Simone Lago ha detto...

La tua scelta la capisco benissimo e la comprendo (ma si tratta poi davvero di "scelta"?): gli esiti sono estremamente coerenti, non c'è dubbio. Di certo è una poesia che richiede molto impegno: va sondata e circoscritta, quando invece gli episodi precedenti spesso avevano uno scatto, nel verso finale, e "aprivano" tutto un mondo tuo privato, oppure pubblico, come pubblica è una via o una piazza di città. Qui c'è -appunto- la claustrofobia riprodotta e marcata ad ogni verso, che ricade quasi su se stesso e non lascia scampo. Forse, ecco, non sono io ben disposto in quanto ho un clima dentro tutto diverso :) Magari l'autunno aiuterà. Ripeto comunque che tutto il lavoro si presenta assolutamente coerente e ben cesellato: c'è un progetto e si sente.

Ad Alessandro: io non credo di avere un fondo "petroso" quanto piuttosto nevroso, nevrotico e inquieto; metto quattro o cinque versi con arsi e tesi disposti in modo regolare per poi rallentare bruscamente e rilanciare. Procedo piuttosto a strappi ed è vero comunque che ultimamente sto cercando di disciplinarmi, disciplinando per prima la lettura, sempre troppo veloce e forse superficiale.
Un saluto a te, Ale, e a Chiara, sempre molto discreta e disponibile.
Ciao

Simone L.

Alessandro Ramberti ha detto...

Sì, il petroso era più riferito a Chiara, ma “nevroso” come aggettivo mi piace (la scrittura poetica stessa può essere nevrotica o neuroterapeutica), comunque la malinconia (che è un modo di soffrire e di gestire le proprie nevrosi cercando da avere consapevolezza), come è ben noto, è piuttosto strettamente correlata alla creatività.

Chiara De Luca ha detto...

caro Simone, in effetti le altre poesie nascevano in momenti più distanti tra loro nel tempo, questo libro invece è una storia, e tutti i grani sono legati tra loro, tuttavia si possono aprire "i boccaporti del buio" :-)
trovarcisi o meno dipende sicuramente dalla disposizione del momento, è sempre così con la poesia, a volte poi in certi testi non ci si ritrova mai, nemmeno in autunno :-) anzi, ti dirò che agosto talvolta m'impregna di una tristezza mortale. per fortuna le stagioni dentro variano a ritmo vertiginoso, in un giorno a volte si succedono gli anni, sbocciano e muiono mondi, si scrivono poesie senza respiro, e si fa una bella corsa ossigenante.
insomma, son d'accordo con Ale, e mi sa tanto che quando siam felici ce ne andiamo a spasso piuttosto che scrivere e ri-vivere... :-)

Chiara

Alessandro Ramberti ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Alessandro Ramberti ha detto...

Ricevo da Luigi Metropoli (che ringrazio) questo commento:

«trovo queste poesie stilisticamente assimilabili a quelle che donasti a Gianfranco (frucco.splinder.com) per La costruzione del verso.
Ritmo che si rincorre come in circolo, ha fretta, erompe, si frantuma, si ricompone, vuole cantare ma lo fa con un grido soffocato. Ed è costantemente incrinato da un incedere melanconico.
C'è una perenne penombra, è un attraversamento del buio, del gelo, non c'è dubbio (le ferite non si contano, e le fratture così come un senso di inadeguatezza alla perfidia della natura, nonché della natura dell'uomo), tuttavia si avverte una tenacia del cammino (la prima poesia infatti prelude ad un parto, sebbene in un'atmosfera vagamente gotica e non accomodante e, infine, c'è una bimba, un segnale di apertura, uno spiraglio, un'origine che è un ricominciare). Ecco, qualcosa si "riapre al passaggio". Scrivi "passaggio", perché "approdo" è concetto al di là della dimensione del presente (e forse, facendo di necessità virtù, non ne abbiamo bisogno).
Comunque stavolta, a differenza alla piccola selezione per La costruzione del verso, ritorni, almeno nel primo componimento, ad una distensione narrativa (ma con registro mutato).»

Chiara De Luca ha detto...

caro Luigi,in effetti queste poesie fanno parte della stessa raccolta da cui sono tratte quelle comparse sulla Costruzione del verso, che facevano parte della prima sezione, "incontro", mentre queste fanno parte della seconda, "i grani del buio" (che è anche titolo della raccolta). La terza è "la notte salva", nel senso di Benjamin (forse lì c'è anche più "apertura", perché le ferite si chiusono). ogni sezione è introdotta da un testo lungo, che, come dici tu, è più narrativo, è in terza persona e fa uso di flash back, in cui compare la bambina. è un tornare all'infanzia intesa come "luogo" atemporale fuori dallo spazio del presente, come per il nostro amico comune Rilke :-) un ri-vedersi da fuori, mentre i "grani", le poesie più brevi sono uno scavare nel dentro e proiettare all'esterno. i grani sono le nenie di quella bambina del testo d'apertura di ogni sezione. il canto è a bassa voce, insistente, uniforme, ma con fratture. tutta la raccolta è un attraversamento, come lo è il crescere, un ripartorirsi, e in effetti non c'è approdo, ma passaggio. un po' come quando in treno entri ed esci dalle gallerie, cercando di catturare il passaggio che a un certo punto scompare, e non fai più caso al ritardo, dimenticando l'ora di arrivo :-)

Chiara

Unknown ha detto...

oggi mi fa entrare...
ringrazio Chiara per l'esauriente notizia riguardo alla sua nascente silloge