lunedì 16 luglio 2007

Parola e immagine 4


di Bernardo M. Gianni (l'articolo precedente qui)

«Passare un ponte, traversare un fiume, varcare una frontiera, è lasciare lo spazio intimo e familiare ove si è a casa propria per penetrare in un orizzonte differente, uno spazio estraneo, incognito, ove si rischia – confrontati a ciò che è altro – di scoprirsi senza “luogo proprio”, senza identità. Polarità dunque dello spazio umano, fatto di un dentro e di un fuori. Questo “dentro” rassicurante, turrito, stabile, e questo “fuori” inquietante, aperto, mobile, i Greci antichi hanno espresso sotto la forma di una coppia di divinità unite e opposte: Hestia e Hermes. Hestia è la dea del focolare, nel cuore della casa. Tanto Hestia è sedentaria, vigilante sugli esseri umani e le ricchezze che protegge, altrettanto Hermes è nomade, vagabondo: passa incessantemente da un luogo all’altro, incurante delle frontiere, delle chiusure, delle barriere. Maestro degli scambi, dei contatti, è il dio delle strade ove guida il viaggiatore, quanto Hestia mette al riparo tesori nei segreti penetrali delle case. Divinità che si oppongono, certo, e che pure sono indissociabili. È infatti all’altare della dea, nel cuore delle dimore private e degli edifici pubblici che sono, secondo il rito, accolti, nutriti, ospitati gli stranieri venuti di lontano. Perché ci sia veramente un “dentro”, bisogna che possa aprirsi su un “fuori”, per accoglierlo in sé. Così ogni individuo umano deve assumere la parte di Hestia e la parte di Hermes. Tra le rive del Medesimo e dell’Altro, l’uomo è un ponte».

Sono queste le parole, trascritte sul ponte che collega Strasburgo a Kehl, con cui il grande studioso di cultura greca antica Jean-Pierre Vernant, morto nei primissimi giorni del corrente anno, salutava nel 1999 il cinquantesimo anniversario del Consiglio d’Europa. Esse paiono voler vaccinare anche noi credenti in Cristo e nel suo Evangelo dalla rischiosa e illusoria tentazione di arroccare la nostra esperienza di fede nel munito fortilizio dell’identità e dell’appartenenza. Queste ultime sono sì salutare versante della nostra vita ecclesiale, ma solo nella misura in cui non meno praticato è il versante opposto, quello di un’altrettanta radicale e fiduciosa estroversione, mutua esperienza cioè di apertura e accoglienza dell’altro, e dunque di conseguente riformulazione di tutto ciò che è il nostro essere e conoscere.
Dinamiche faticose, certamente, come faticoso è un siffatto crinale che solo però pare garantire approdi fruttuosi ai nostri itinerari che di necessità sono oggi tracciati sulla fluida e multiversa instabilità della «modernità liquida» (Bauman) in cui viviamo. Solo una comunità che non faccia dell’identità e dell’appartenenza un feticcio totemico può infatti arginare l’imperante cultura dell’individualizzazione di tutti i legami sociali, che per suo carattere è cultura costantemente ostile a qualsiasi negoziazione delle differenze ed esposta al rischio di una uniformità e di una solitudine esclusive ed aggressive, solo in apparenza autosufficienti e comunque incapaci di ascolto e relazione.
Un crinale che si fa ponte: ovvero l’approdo che non è mai approdo, la meta che non è mai meta. È proprio nell’immagine del ponte che trova l’evocazione simbolica più suggestiva un’esperienza di fede radicata nella traditio, ma al contempo aperta al futuro: introversa custode del proprio patrimonio culturale, nello stesso istante è estroversa testimone, con la forza indomita dello Spirito, di un annuncio destinato a ogni cultura e a ogni persona. Ne è ulteriore, feconda e irrinunciabile trascrizione simbolica la liturgia eucaristica, sorgente e culmine di una rinnovata testimonianza di vita nuova nel Signore Gesù: intimo spazio di concentrazione di noi in Lui e di Lui in noi, nello stesso tempo è manifestazione al mondo, con gesti e parole efficaci, della sua legge di carità donata alla storia e alla moltitudine che vi dimora. Nel 1994 ci aveva infatti così ammaestrato Giovanni Paolo II:

«L’eucaristia ci indica la strada maestra. È la strada del servizio, che esclude ad ogni livello – nella società, nella politica, nell’economia – la logica perversa della sopraffazione. È la strada della solidarietà, che pone i talenti e le risorse degli uni a vantaggio degli altri, e di tutti gli altri, tanto più preferiti quanto più bisognosi e provati. È la strada dell’unità, sì quell’unità organica che si costruisce gettando ponti tra le diversità in un orizzonte di tolleranza, di fraternità, di pace».

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