lunedì 16 luglio 2007

Su Il cantiere ed altri luoghi di Angelo Mundula


recensione di Maria Rosa Panté


Mentre il Cantiere mi forgiava

Il cantiere e altri luohgi si intitola l’ultima raccolta poetica di Angelo Mundula, pubblicata da Carlo Delfino Editore nel 2007.
Gli “altri luoghi” che compaiono nelle liriche sono la poesia stessa, la memoria, la società, la fede. Luoghi non luoghi come pure il Cantiere, che, pur essendo uno spazio fisico e reale, assume le caratteristiche di un luogo altro, dilatato: il contenitore, in un certo senso, degli altri luoghi.
Le poesie sul Cantiere, ricordo dell’infanzia e della prima formazione, sono disseminate lungo la raccolta come un pensiero che ritorna, come lo sfondo, la radice delle altre poesie, degli altri temi.
Dal cantiere, Mundula, esce ed entra in quanto luogo privilegiato della memoria. Il Cantiere ora è in disarmo, ma non la poesia, non la ricerca inesausta di Dio che, in alcune liriche si fa drammatica, (Quante colpe p. 37: “È la colpa la colpa la nostra persecuzione / il nostro male mai domo. Nessun uomo è / uomo se non ne sente il peso, / il terribile suono”); in altre, invece, fiducioso abbandono (Del silenzio p. 77: “amo il silenzio ov’è nascosto Dio”).
Dal Cantiere il poeta vede il mondo, critica spesso la società che lo circonda per il suo materialismo, per la sua lontananza da Dio (L’astuccio degli occhiali p. 76: ”Ma / per chi ha peso l’anima neppure l’interessato / si mette in moto neppure lui fa qualcosa / per ritrovarla. Sembra così facile farne a meno / in questi tempi di amore ad oltranza / per le cose di nessun conto”).
Nel suo percorso Mundula compie e approfondisce la ricerca dell’essenza della poesia, il senso della parola poetica e insieme la ricerca, mai consolatoria, ma direi al tempo stesso trascendente e quotidiana, di Dio.
A Dio, il poeta, chiede disvelamento, ma anche il dono della semplicità. Bellissima è l’invocazione della poesia Notte dell’anima (p. 23): “O Signore non circondare la mia vita / di troppi enigmi”.
Che è poi il rischio del poeta, quello di lasciarsi andare ai dubbi, di essere una zattera in balìa delle onde (l’immagine del naufragio, della navigazione, topos poetico per eccellenza, è nella raccolta del sardo Mundula un ulteriore aggancio con la sua terra, la sua storia).
Nella memoria determinanti sono gli affetti e dunque si celebra il ricordo degli amici ormai morti, ma nel contempo la festa per un anniversario, per una nascita, per l’amico di sempre…
Di tutti i temi, in particolare mi ha colpito la profondità, la precisione chirurgica con cui Mundula parla della poesia, della parola poetica, del poeta, quindi di se stesso (Grande poeta p. 59 il cui grido è “inascoltato, inatteso, imprevedibile”).
La parola poetica è Parola sospesa (p. 26), parola inevitabile, in bilico, parola che muta (sé e il mondo), “(…) ma quanta / gioia e sofferenza è il verbo / quando si spicca dall’anima / e riflettendosi riflette il nostro / firmamento l’eterno scompiglio”. Chi scrive poesia sa che la parola “si spicca” dall’anima come un frutto, che cade naturalmente, ma quanta fatica gioiosa per produrlo!
Però il dramma del poeta è tutto concentrato in pochi bellissimi versi: Del fare (p. 39). in questa lirica Mundula, come presumibilmente ogni vero poeta, rimpiange il fare, l’agire, la capacità di vivere per l’altro. Lui però è un poeta: “un uomo impastoiato dalla parola / da questo antico suono che mi strugge. / Vado cercando vita ove la vita fugge”.
Nella sua ricerca del senso dell’esistenza, della morte (una morte spesso presente), nella sua volontà di indagare, dire la sua fede, Mundula inevitabilmente si scontra con L’inspiegabile (p. 38) che è “il sale della vita”. La conclusione amara e pure, a mio avviso, non disperata, ma dinamica è: “Il nostro vero approdo è il naufragio”.
La poesia di Mundula è sempre tesa ad altro; apparentemente facile da intendere, risveglia emozioni profonde e lancia semi di riflessione, oltre la parola, pur molto sorvegliata e sempre altamente poetica.
Lo stile ricco di rime interne, assonanze, allitterazioni è molto musicale, cantabile senza mai cadere in un ritmo prevedibile. Basti analizzare il tessuto fonico e retorico che si trova già fin dalla lirica di apertura Riu Mannu (p. 7), dove si trovano assonanze (perde / erbe), consonanze (perse / perdo), similitudini (le tue sponde come se fossero date).
Da ultimo vorrei sottolineare una vena di intelligente e lucida ironia, ed autoironia, (Sopravvivenza p. 25), dote che da sempre aiuta a vivere. Il libro è, dunque, così denso di motivi che ognuno troverà il percorso di lettura a sé più agevole e godibile.

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