giovedì 21 giugno 2007

Ha senso Farapoesia?



di Daniele Borghi

v. anche Mimmo Cangiano

Ho un particolare affetto e stima per la Fara e, soprattutto, ne ho per Alessandro Ramberti che ne è l'incarnazione e lo spirito.
Per questo motivo guardo con molto interesse tutto ciò che essa (o lui, a scelta) propone sia in volume che in formato elettronico. Negli ultimi tempi, la mia attenzione è stata catturata dal blog "FARAPOESIA", ed è proprio la mia attenzione alle liriche in esso contenute che mi hanno spinto a riflettere su alcuni aspetti della "comunicazione poetica".
Prima di cominciare ad affrontare il nocciolo del mio disorso, vorrei scusarmi di una cosa: il mio non sarà un commento ad un autore o ad una lirica, ma piuttosto una impressione generale che, proprio come tale, non ha un valore definito ma fluido, vagamente inconsistente. Mi scuso anche perché questo mio breve scritto potrebbe sembrare una cosa che somiglia molto ad un “lanciare il sasso e nascondere la mano“, nel senso di non indicare con precisione nessun autore e nessuna poesia. Forse, se questo testo dovesse aprire un vero e proprio “dibattito“ lo farò, ma ora non mi sembra il caso.
Per non dar luogo a fraintendimenti, o almeno per cercare di limitarli nella maggiore misura possibile, cerco di spiegarmi meglio.
Fare un discorso generale (forse generico) sul contenuto lirico di un sito che pubblica poesie non sarebbe particolarmente agevole se non si riscontrassero caratteristiche comuni a moltissimi autori. Io credo che nel caso di Farapoesia molti autori abbiano, appunto, caratteristiche comuni, ed è proprio da questa convinzione che nasce questo mio scritto.
Finalmente ho finito il preambolo e vengo a quanto mi preme dire.
Allora, cosa fa una persona che pensa di trarre piacere nel leggere poesie e che conosce un blog che ne pubblica e che è tenuto da una persona che stima? Facile: quando ne ha il tempo si connette e legge. Esattamente quello che ho fatto e faccio io. Di solito si comincia dagli autori che si conoscono di persona o di nome e poi si passa agli altri lasciandosi guidare dall'istinto o dall'ordine alfabetico.
A prescindere dal metodo e dal tempo a disposizione alla fine si arriva a leggere tutto e alla fine, quasi inconsapevolmente, rimane una strisciante impressione complessiva. Scrivo strisciante perché è evidente che ogni autore ha modalità espressive, stile, tematiche e personalità diverse e definisco così quest'impressione perche non è una sensazione ben definita, lo è soltanto in parte, fuggevolmente.
Come ho cercato di spiegare, quello che rimane in bocca è un sapore indefinito, come quello che rimane in bocca dopo un pranzo nuziale: moltissime portate ma nessuna di loro, mischiandosi con le altre, ha lasciato il proprio gusto in maniera indelebile. L'unico sapore che resta dopo questo banchetto di liriche è sgradevole e ha un nome preciso: disinteresse di chi scrive verso chi legge.
Raramente capita di incontrare autori che mostrino un reale desiderio di condivisione. Quello del poeta sulla torre d'avorio è argomento talmente obsoleto da essere marcio, quello che voglio dire è altro, non fraintendetemi.
Quello che a me è rimasto, è la sensazione che moltissimi autori non siano affatto interessati a comunicare con il lettore, ma usino il testo poetico per tutt'altri scopi.
Per liberarsi di tensioni, per autoanalizzarsi, per fare acrobazie linguistiche o elenchi insensati.
In altre parole, per essere ancora più chiaro, non hanno alcuna intenzione di condividere, solo quella di scrivere, in una sorta di onanismo pubblico che, a meno di particolari inclinazioni linguistico-sessuali, desta molta più perplessità che partecipazione.
Mi domando: perché mettersi apparentemente in gioco, fingere apertura per poi ricorrere a forme che non consentono di capire?
Un altra domanda. Se la mia impressione ha un fondamento di verità, perché fare tutto questo?
È ovvio che chi scrive lo può fare come, perché e quando vuole, ciò che mi chiedo è altro. Non perché scrivere, ma perché pubblicare. Perché non lasciare le proprie liriche nel buio di un hard disc invece di darle in pasto ad un “pubblico“ verso cui non si manifesta la minima attenzione e (permettetemi la parolaccia) nessun rispetto.
Immagino che quanto ho scritto possa far nascere commenti risentiti, e immagino anche come i più risentiti commenti possano provenire da coloro che si sentoni chiamati in causa da queste parole.
Un ultima cosa. Chi mi conosce un po' lo sa: non ho affatto voluto mettermi in cattedra e pontificare. Credo che interrogarsi su quanto si fa (in ogni campo) sia necessario e salutare. Per questo motivo, proprio oggi ho mandato alcune poesie ad Alessandro per non sottrarmi a commenti di ogni tipo.

15 commenti:

Alessandro Ramberti ha detto...

Ringrazio Daniele per le domande che ci pone e che trovo particolarmente stimolanti per tutti coloro che scrivono (in particolare poesia): ogni tanto riflettere nero su bianco aiuta a fare un po' più di chiarezza in sé e attorno a sé. Chi si sente interpellato dalla questione è ovviamente invitato a lasciare commenti, proposte, controanalisi…

Paola Castagna ha detto...

Come invitar noc a bear...come invitare un oca a bere,così si dice dalle nostre parti.
Invita Alessandro nell' esporsi per primo, invita il Borghi nel soffermarsi su di un tema antico quanto l'uomo.
Forse, Daniele, il punto è proprio questo, il poeta scrive per conoscere l'Uomo che lo abita.
Un saluto ad entrambi, scusandomi delle poche righe ma in questi giorni lo scrivere è fatica.

MimmoCangiano ha detto...

Daniele, potresti specificare un po' di più cosa intendi per "condivisione"? Ovvero, quale è l'altra strada rispetto a quelle da te analizzate come negative?

Direi che è difficile non essere d'accordo quando si afferma che è necessario (o comunque importante) cercare di comunicare col lettore, ma se poi non riempiamo queste parole di significato finisce che restano un po' appese nel vuoto e ognuno può riempirle con ciò che meglio crede, magari anche con cose che per lui sono "condivisione" e per te no.

Alessandro Ramberti ha detto...

(Ricevo e pubblico il nuovo commento di Daniele B., che ringrazio)

Cercherò di essere sintetico anche se per certi argomenti occorrerebbero molte pagine. Per esserlo ancora di più risponderò nella stessa mail a Paola e a Mimmo.
Il commento di Paola è l'esatta conferma di quanto ho scritto ieri: ci sono autori che usano la poesia per autoanalizzarsi. Come ho già scritto, in questo non c'è nulla di male, il problema è tutto dei lettori che, per orientarsi in quei rigurgiti interiori, fanno una fatica bestiale e molto spesso senza ottenere alcun risultato. Il nocciolo del problema non è perché scrivere, è perché pubblicare. Soprattutto scoprire i motivi che spingono a farlo, e di conseguenza dare una ragione ai lettori per affrontare un testo che non si preoccupa minimamente di rendere partecipi.
Per i rebus c'è La Settimana Enigmistica, credo che la scrittura sia altro. E qui inizio a rispondere a Mimmo.
Ciò che io intendo per condivisione potrebbe essere anche definito “possibilità di comprensione“. Chi scrive, e soprattutto PUBBLICA, ha intenzione di comunicare, altrimenti non si organizzarebbe per vedere i suoi testi stampati su carta o su un video di pc. E allora perché rendersi incomprensibili? Non voglio dire che una poesia debba essere soggetto, verbo e complemento oggetto, ma neppure un groviglio inestricabile. Se vogliamo vederla da un punto di vista del “giudizio“ del lettore posso fare un'altra domanda: Come posso apprezzare un qualsisi testo di cui non conosco o non capisco la sostanza di base, il significato? La forma è ovviamente importante ma ha necessità di sposarsi a un contenuto che non si afferra… come poter apprezzare e godere di una cosa che non si capisce?
Forse la mia mancanza di studi classico/letterari, il mio scarso acume o forse il mio essere più vicino alla narativa che alla poesia, mi impedisce di afferrare concetti e pensieri non perfettamente delineati. Se fosse così perdonatemi tutti perché queste righe non hanno alcun senso. Un ultima cosa. Nel caso in cui tutto quello che ho scritto fosse una colossale idiozia, io sono comunque una persona che cerca di leggere molto in ogni campo, cerca di capire i testi e si sforza di farlo e non credo che questo sia un atteggiamento molto diffuso. Se a dispetto di questi sforzi non riesco a penetrare la maggior parte dei testi poetici di Farapoesia (e accade la stessa cosa in altri siti, questa non è certo una prerogativa di farapoesia), credo che nessuno dovrebbe poi lamentarsi dell'emarginazione della poesia, sono convinto che sarebbe più onesto parlare di autoemarginazione.

Alessandro Ramberti ha detto...

(Ed ecco cosa mi scrive Salvatore Ritrovato che ringrazio per essere con noi)

Caro Alessandro,

le perplessità di Daniele Borghi sono fondate e condivisibili. La similitudine con il pranzo nuziale, poi, è perfetta! Quello che vorrei dire, a tuo favore, è che esse non concernono solo Farapoesia, bensì tutta la poesia, da alcuni anni.

Si moltiplicano le occasioni di lettura, di incontro e di scambio. I poeti leggono, altri poeti ascoltano. È un circolo vizioso. Il pubblico della poesia è composto di altri poeti che aspettano il turno di leggere ai poeti che prima leggevano. Si parla di “autoreferenzialità“, che è un termine molto complesso. Anche il poeta che ha un pubblico di soli professori universitari che lo capiscono e ne apprezzano le (così dette) “novità“ e le “rotture“ con la tradizione (che significa che non si capisce niente) è in qualche modo autoreferenziale. La condizione della poesia è, da questo punto di vista, disperata, se non si comincia a seminare l'interesse per la “lettura“ della poesia (sottolineo lettura, non scrittura!!!) dalla scuola e dall'università. Occorre recuperare il senso della responsabilità della “poesia“. Responsabilità che vuol dire 'rispondere' a qualcuno, avere rispetto - come scrive Borghi - per il pubblico.

Un tempo erano pochi a saper leggere e scrivere, e la figura del poeta era 'eccezionale'. I poeti che sapevano leggere e scrivere erano ammessi a corte; gli analfabeti, improvvisatori, dotati di una memoria e di una capacità versificatoria straordinaria, i così detti “poeti orali“, giravano per le piazze riscuotendo ammirazione e rispetto. Oggi, invece, tutti più o meno sanno mettere insieme due parole, saltando le virgole, e andare a capo per fare un verso. La scrittura poetica è delle più 'facili', persino più facile del diario, che richiede sempre una manciatina di virgole e qualche consecutiva. Inoltre, la “memoria“ non serve, conoscere la tradizione (del Novecento) men che meno. Ma vi è anche una dimensione antropologica più profonda nel diluvio poetico in corso.

Siamo nell' “età lirica“, ha scritto Kundera. Ma pochi, soprattutto in Italia, se ne ricordano, perché da noi “lirica“ è parola pericolosa. L'otium ormai occupa una porzione consistente del nostro tempo giornaliero, e ci permette di concentrarci su noi stessi, liberi dai problemi di sopravvivenza (che in molte parti del mondo non sono finiti), liberi di dedicarsi alle cose più piacevoli (shopping, palestra, televisione, blog ecc.), liberi di avere tempo per scrivere e riscrivere nei termini più raffinati ed elusivi un vecchio amorazzo adolescenziale che ci tormentò un'estate luminosa di tanti anni fa, di rimpiangere il lui o il lei ecc. Ma c'è una domanda che io mi faccio, ogni volta che leggo una poesia, un racconto, un romanzo: era “necessario“ che l'autore mi parlasse delle sue cose? Torno alla similitudine del pranzo nuziale. Dopo l'antipasto e il primo, capita di essere già sazi. Io vado volentieri alla cerimonia, non al pranzo. Vorrei alzarmi e salutare tutti, andarmene. Penso alla gente che muore di fame. Rantolo, e mi ingozzo. Devo restare. Comincio a centellinare le risorse della mia panza, e a bere ottimi vini con moderazione. Mi alzo appena posso per fare due passi, e smaltire qualche decina di calorie con una risata, spero in una grandiosa evacuazione liberatoria (che arriverà solo la mattina dopo). Devo restare. Mi accorgo che non era necessario che io assaggiassi, per quanto squisito l'antipasto di pesce, e che insomma potevo evitare almeno un primo, anche se era proprio il mio piatto preferito… Niente più mi appare necessario.

Questa non-necessità non tocca solo la poesia, ma anche altre forme artistiche, che da anni appaiono 'sature' di cose già dette e ridette. Fatevi un giro alla Biennale d'Arte di Venezia… L'arte parla a sé stessa, di sé stessa, della sua morte. Anche la poesia ha i suoi punti di non ritorno, ma forse - proprio in virtù della sua 'facilità' (scusate se la chiamo in questo modo) espressiva - riesce a mantenere a volte un canale ancora aperto con la realtà. Non sto propugnando un ritorno al realismo, ma una maggiore attenzione alle domande che ci pone il mondo (che non è solo ciò che ci circonda), un ascolto più attento alle 'risposte' - poche senza dubbio, a volte fuorvianti, ingannevoli - che potremmo dare a chi ci legge. Se non c'è nulla da dire, si abbia almeno la decenza di tacere, e magari di interrogarsi su quello gli altri, quando era necessario dire qualcosa hanno detto.

Un caro saluto

Salvatore

Unknown ha detto...

bisogna pur far dire a qualcuno: ci sono! è per questo che esistono i concorsi di scrittura, i reality, i blog, i microfoni dei giornalisti, etc… che la democrazia del sapere ha reso possibile a tutti di saper scrivere leggere e far di conto, e che la tecnologia ha reso possibile trasmetterlo e riprodurlo, ad un più vasto auditorio in cui il rumore è maggiore dell'informazione. E poi scrivere è semplice, gli appassionati di matematica sono in numero minore e più preparati.
Per quanto mi riguarda penso che scrivere poesia e pubblicarla ha senso se è un atto civile (o etico) (o epistemologico, và mettiamoci pure questo!) e gli editori potrebbero ragionare in questo senso. Il pranzo di nozze non è altro che l’obbligo “mondano” ad un evento civile.

Alessandro Ramberti ha detto...

Grazie anche a Kristian
sai che su questo mi trovi d'accordo.
A

Stefano ha detto...

Ciao Daniele,
dal tuo punto di vista puoi avere perfettamente ragione tanto ad esempio che io (parlo ovviamente solo del mio caso) in effetti non ho alcun'intenzione di condividere alcunché (e, scusa, non me ne vergogno affatto), scrivo quel che mi colpisce di ciò che vedo attorno ed anche di ciò che vedo in me stesso. A costo di sembrare avulso dalla realtà e controcorrente, non sono affatto d'accordo sul fatto che la poesia debba nascere con una funzione comunicativa più o meno esplicita. Ovvio, se un valore comunicativo e di condivisione emerge in alcune liriche ben venga! Ma peraltro secondo me la parola (scritta bene, non tutti i tentativi vanno a buon fine, forse è questo il vero problema) ha già in sé questa capacità, a prescindere da ogni intento comunicativo a monte che anzi reputo talvolta molto limitante della poesia stessa. A me capita di amare e condividere sensazioni leggendo testi di autori che parlano solo di sé e che, non avendo alcun rispetto per il lettore nel senso che credo dici tu, pure suscitano in me immagini, suoni, colori e mi danno semplicemente attimi di poesia, ciò che in fondo è tutto quel che chiedo in questi giorni così avari in questo senso. Non mi sembra che un autore debba per forza cercare di farsi capire, per creare partecipazione. Non vedo che bisogno ci sia di palesare in qualche modo particolare sentimenti o pensieri che fan parte dell'uomo in quanto tale dalla Grecia antica sino ad oggi e che ne saranno parte sempre finché ci sarà un uomo sulla terra. Qualunque persona sensibile di fronte ad un testo poetico è in grado di cogliere e restar colpito da qualcosa di condivisibile, perché è capitato anche a lui o perché semplicemente gli piace il modo in cui è detta una certa cosa. Ecco, penso che forse se tu non hai colto nulla di tutto questo sia semplicemente perché non hai trovato autori che abbiano toccato le tue corde o sei incappato in alcuni tentativi poetici non perfettamente riusciti. Non trovo nulla di strano nella reazione sgradevole che hai avuto tu alla lettura di certi testi in quanto è stata senz'altro una reazione naturale che capita a tutti quando leggono qualcosa che non "tocca". Semplicemente non credo affatto che ciò sia dovuto a mancanza di rispetto o a qualche volontà di non farsi capire dal lettore. Chi viene "toccato" apprezza, chi no non apprezza. Ho letto con piacere i tuoi versi e mi ha colpito molto la poesia "Equinozio", in particolare l'ultima quartina, davvero molto bella per me.
Stefano

Unknown ha detto...

come fa una parola, una frase una poesia a NON essere comunicativa?
Qual'è una frase non comunicativa?
Se la poesia deve fornire/favorire sensazioni, anche l'ottovolante dà sensazioni, perchè scriverne anzi, perchè leggerle meglio l'ottovolante.

Daniele Borghi ha detto...

Non voglio annoiare nessuno e quindi non ripeterò, magari usando altri modi, quanto ho scritto nei miei interventi precedenti. Un po' di fatica nell'autocensurarmi c'è perchè un paio di "commentatori" sembrano aver letto una cosa che non ho scritto.
Lascio solo due brevi risposte.
A Stefano: se, come dici, non hai "alcuna intenzione di condividere alcunchè" (l'alcunchè è un vero colpo di genio, evidentemente nulla o niente erano troppo banali), perchè pubblichi?
Non hai vogllia di condividere a che serve farlo?
Se, per usare le parole di Kristian, lo fai per dire "Io ci sono!" mi dispiace molto che tu non abbia altri modi per farlo.
A Kristian: non sai quanto ti invidio per quella frase in cui dici "Come fa una parola, una frase, una poesia a non essere comunicativa?" evidentemente sdegnato dei dubbi che mi sono permesso di sollevare. Ti invidio perchè a me, ogni giorno, nella stragrande maggioranza dei casi, pare di sentire solo parole frasi e poesie che non abbiano nulla di comunicativo.
per ciò che riguarda il consiglio sulle giostre, devo confessarti che l'ottovolante mi fa rovesciare lo stomaco, preferisco i cavallucci.

Stefano ha detto...

Ciao Daniele
rispondo alle tue domande, cercando (spero) di spiegarmi meglio. Tra parentesi, non pensavo che scrivere "alcunché" potesse risultare fastidioso per qualcuno: non è un colpo di genio, è solo una parola in italiano, ma non mi sembra molto interessante o rilevante, no? Ribadisco quella che è solo la mia opinione, basata sulle mie esperienze e che non pretendo sia accettata: scrivo senza alcuna intenzione di condividere e non sono affatto d'accordo sul fatto che la poesia debba nascere con una funzione comunicativa più o meno esplicita. Perché pubblico? A che serve farlo? Sarò strano ma a me capita a volte di sorprendermi di fronte a cose semplici come la natura o la vita mia, delle persone, di come tutti la gestiamo e di trovare in tutto ciò della poesia. In questi casi ho un'insopprimibile esigenza di scrivere per fermare quell'attimo che mi dispiace perdere o dimenticare nella fretta che c'è attorno, come fa un fotografo o un pittore, penso. In questo non ho alcuno scopo di comunicazione o condivisione. Allora perché pubblico? Mi son deciso a farlo (sinora una sola volta) convinto da varie persone, anche addetti ai lavori, a cui alcune mie cose son semplicemente piaciute e che ritenevano un peccato lasciarle in un hard disk perché, chissà, magari sarebbero piaciute anche ad altri. A che serve farlo? Dopo averlo fatto, mi ha piacevolmente sorpreso scoprire che c'erano persone, anche perfetti sconosciuti, che provavano o avevano provato le stesse cose che avevo scritto. Ciò anche grazie alle pur poche letture pubbliche fatte, per cui devo solo che ringraziare Fara, e ad amici o conoscenti con cui spesso, anche per forza di cose, di certe cose non si parla nella vita di ogni giorno. Ciò mi ha fatto davvero piacere ed ecco, in questo senso forse sì ho scoperto la condivisione: delle semplici parole scritte per un'esigenza intima, del tutto personale mi hanno confermato che, pur in un mondo così diviso, in fondo alcune sensazioni e valori sono universali, e tanti uomini non sono poi così diversi. Scusa lo sproloquio, la sintesi, come dice anche Alessandro, non è un mio dono. Ti saluto,
Stefano

Paola Castagna ha detto...

Caro Daniele avrei preferito non rispondere più di tanto in merito al tuo testo.
Costretta però da parole lette che ritornano nella mente.
Lo scrittore Borghi sull’antologia FaraPoesia nel presentare la sua silloge “Recapiti sbagliati per indirizzi falsi”, così scrive:
MA LA POESIA E’ UN’ ALTRA COSA, LO SO.
LA SPERANZA CHE MI HA ANIMATO NELL’ACCETTARE L’INVITO A FAR PARTE DI QUESTA ANTOLOGIA E’ STATA SOLTANTO UNA.
SE ALMENO UNO DEI LETTORI( SPERO TANTI ANCHE SE NON VEDRO’ UN SOLDO DI DIRITTI) TROVERA’ UN PO’ DI ANIMA NEI MIEI VERSI E CI SI SPECCHIERA’ CON LA SUA, LO SCOPO SARA’ RAGGIUNTO: SARO’ ENTRATO IN CONTATTO.
TUTTO IL RESTO CONTA POCO.

?

P.s: Andrea è stato bocciato, selezionato da tempo come quello da fermare. dovevano trovarne uno, che culo che ha avuto il mio ragazzo fortunato.

Daniele Borghi ha detto...

Mi sembra che i commenti di Paola e di Stefano siano perfettamente in linea con quanto ho cercato di esprimere sinora. Stefano è rimasto piacevolmente sorpreso e soddisfatto di come le sue liriche abbiano raggiunto un "pubblico" più o meno vasto. Paola cita delle mie parole che, credo senza alcun dubbio, confermano il mio desiderio di voler arrivare al cuore e alla mente(scusate la banalità) del lettore.
Non vorrei darmi ragione da solo, ma alla fine mi pare che quanto ho scritto non sia del tutto campato in aria.

Unknown ha detto...

Ciao Daniele,
questa discussione mi appassiona come in genere tutte le discussioni sul significato delle cose e delle parole, ho una indole epistemologica. Non sono “sdegnato” di quanto scrivi, piuttosto sono curioso e serio nel giocare, nel cercare di conoscere. Quando scrivo, non necessariamente poesia o letteratura ma anche una relazione tecnica, o la lista delle cose da fare, ogni parola ha un significato, mi comunica un concetto, fosse anche solo “comprare lo zucchero”, quando mi chiedo come fa una frase a non essere comunicativa, intendo come si fa a scrivere un segno che non sia comunicativo in senso oggettivo. Qualunque parola rappresenta un concetto o un oggetto e quindi comunica, fa partecipe il lettore dell’esistenza della cosa.
Mi sembra che invece al termine “comunicativo” si dia un significato altro, più “alto”. Per questo mi chiedo come fa una parola a una frase a non essere comunicativa?
Casomai si tratta di ragionare su qual è l’oggetto della comunicazione, e se la struttura della frase, del componimento (come dovrebbe essere nella poesia) sia tale da avere valore comunicativo in sé o solo in funzione dell’oggetto che comunica. Mi spiego.
Le odi elementari di Neruda hanno come oggetto della comunicazione soggetti senza alcun valore comunicativo poetico, ma la struttura della poesia e la scelta delle parole hanno valore comunicativo in sé, rendono partecipi i lettore all’apprezzare le cose elementari.
Al contrario una frase come “ti amo tanto” benché l’oggetto dalla comunicazione sia “importante” non comunica, non ha nessun intento poetico. (vedi Cristiano e Rossana).
Questo fa il poeta o la poesia, sa comunicare rendere partecipi, dare notizia, informare, su oggetti banali, seri, giocosi o inesprimibili (milioni di soldati sono tornati dalla guerra, e dal Carso ma solo Ungaretti ha saputo scrivere poesia).

Credo che la discriminante sia questa, per questo il rendersi incomprensibili non aiuta l’intento poetico se cerca di nascondere o stupire.

La crisi della poesia è forse l’equivalente della crisi della pittura e dell’arte contemporanea.
Le mostre d’arte sugli impressionisti fanno il pieno, quelli sui pittori del 300 senese o sulla transavanguardia rimangono deserte o per pochi addetti ai lavori.
Il grande pubblico ha bisogno di tempo, e il rumore delle possibilità comunicative odierno, non facilità la comunicazione.
Non credo che la poesia sia emarginata o autoemarginata.
Certo una bella botta gliela hanno data i cantanti o cantautori, facendo credere che i loro testi fossero poesia. E quindi perché leggere quando posso ascoltare?
Poi il mercato, la necessità di produrre, la poesia invece ha bisogno di sedimentazione e tempo.
Poi non lo so, io quando compro un libro di poesia spulcio il testo se mi comunica qualcosa di non banale lo compro. Altri seguono consigli, leggono recensioni. Non comprano.

Resta il fatto che se un film come “Centochiodi” viene ritenuto un film da 4 o 5 stelline e un “capolavoro” c’è qualcosa nella critica che non funziona. E se succede per un mercato vasto come il cinema figurarsi per la poesia.

Spero di aver dato un contributo alla discussione.
Cordiali Saluti a tutti.
Bene e adesso devo ritornare alle mie parole tecniche.

morena fanti ha detto...

Interessante questione, questa che Daniele ha sollevato.
Credo che il web abbia 'sguinzagliato' - e spero di averlo scritto bene - orde di scrittori, dando la possibilità a tutti di pubblicarsi autonomamente.
Questo potrebbe essere un male ma credo sia soprattutto un bene.
E' vero che molti scrivono per motivi che non ci è dato sapere e capire, ed è vero che spesso si leggono cose che ci fanno chiedere: perché?... ma credo che tutti noi abbiamo maturato una capacità a distinguere e anche qui, come con la tv, possiamo 'cambiare canale' e andare a leggere altrove.
Credo sia vero ciò che dice Daniele, che molti scrivono poesia per i più vari motivi, tra cui a volte non c'è desiderio di condivisione ( da esplorare comunque anche questo) ma desiderio di apparire e basta.
Io - e parlo di me solo perché é un argomento che conosco bene, non per altro - scrivo perché mi va, perché mi viene in mente una cosa da scrivere e si forma così nella mente. La metto su tastiera per non perderla e poi la potrei tenere nel mio hard-disck certo, però la pubblico. Cos'è che mi fa decidere di fare questo?
La condivisione? Forse sì. A volte è questo: desiderio di con-dividere il colore di una cosa o il profumo di un'altra. Ma spesso è anche desiderio di confronto, e anche di misurarmi con le idee e le parole altrui. Ci sono tanti motivi per cui si decide di pubblicare le proprie scritture e, per tanti di noi, sono motivi diversi.
Per quanto riguarda i commenti. spesso accade che un'opera 'buona', una poesia che sa dire qualcosa sia più difficile da commentare, perciò molti passano e non scrivono nulla. Più facile scrivere se si è in disaccordo o se si sente il bisogno di fare una critica...

... quanto ho scritto? Troppo, come al solito :-)