lunedì 2 luglio 2007

Salvaguardare il tempo e l’assenza: un’ipotesi per la poesia contemporanea


di Mimmo Cangiano

(anche una possibile risposta alle domande di Daniele Borghi)

Pensare di poter istaurare una reale comunicazione con il lettore è, perdonatemi la franchezza, un atto un po’ ingenuo che sottintende al fondo una paura e, di conseguenza, un risvolto autoritaristico per contrastare quella paura. Pensare ad una “parola” (poetica o no) che arrivi intatta dall’altra parte, all’orecchio del lettore, che si faccia “comunicazione” (nel senso in cui mi pare la intende Borghi) sottintende un desiderio di immobilizzazione coatta del pensiero, un desiderio che oscilla fra il semplice e il violento.
Borghi ha ragione a mio parere a parlare di “onanismo”, ha torto a parlare di “disinteresse”. Ha torto, mi spiego, solo nel caso in cui non è in grado di rintracciare “la linea che separa ciò che è vero in virtù di uno stato del mondo e ciò che è vero in virtù del significato dei termini”. Se è in grado di far ciò, se è in grado cioè di dimostrare che non è vero che nei rapporti umani il primo principio di falsificazione proviene proprio dal linguaggio, cioè dal tentativo coatto di immobilizzare la vita (aperta) in forme (chiuse), allora il mio discorso decade e non vale la pena continuare a leggere.

Ma se, come credo, il linguaggio è solo uno strumento convenzionale (e le convenzioni sono certo importanti in questo nostro frammentato tempo) mediante il quale “ci capiamo” per gradi di approssimazione, il mito della “comunicazione” è un falso mito, e sottintende, come dicevo, da un lato il desiderio un po’ alla Candide di “comunque ci capiremo”, dall’altro, l’ansia (questa sì violenta) di fissare punti fermi, oggettivi, necessari alla speranza di una comunicazione.
Lungi da me l’idea di intraprendere un discorso nichilista contro la comunicazione, non si tratta di questo: si tratta di comprendere bene i limiti di questa comunicazione per poterla riproporre nella sua variante più tollerante, più aperta, più debole, e quindi più contingente.

Quando Perelà (l’anno è il 1911) arriva in città, la gente si affanna a cercare di capire chi sia, si affanna a cercare di definirlo, si affanna cioè a cercare un punto fermo (ovviamente il proprio) mediante il quale possa “comunicare” con lui. Ecco che l’ansia di comunicazione sottolinea ancora una volta l’ansia di un’appropriazione, di un possesso, della volontà di “incarcerare” la molteplicità dell’altro per ridurla alla propria unità significante. Ma Perelà è di fumo, le parole non sono in grado di afferrarlo, di ingabbiarlo. Le parole, questo ci insegna il romanzo di Palazzeschi, sono puramente potenziali. Hanno sì un loro valore, ha sì senso usarle, ma ricordando che Perelà (l’oggetto che le parole vogliono afferrare) è “leggero, leggero, leggero”.

Le pecche della poesia contemporanea (e di certo non mancano) vanno, credo, ricercate altrove. E vanno ricercate in primo luogo nell’assenza di “consapevolezza” e di “problematicità” che guida la mano dei poeti. Mai come ai nostri giorni si era assistito a un tale scollamento fra la poesia e le altre aree culturali, mai come ai nostri giorni ci si era comodamente adagiati in stilemi intellettuali di così basso profilo: misticismo a buon mercato, culto di un’eticità totalmente slegata da quello che è il tradizionale modus operandi della produzione poetica, religiosità d’accatto che se pure ha buon gioco nel trovare fruitori lascia sgomenti per la “faciloneria” che porta con sé, mito di un corpo tragico a cui è stata sottratta qualsiasi valenza ironica e popolare che ne sottolineasse una reale continuità con un’azione (politica? trasformativa?) di indagine sulla realtà.

Non so se la poesia stia realmente morendo, di certo ce la sta mettendo tutta. Ma devo dire in conclusione, cercando anche di spiegare il titolo di questo breve intervento, che le note positive non mancano. “Salvaguardare il tempo e l’assenza” vuol dire salvaguardare, senza nascondersi la realtà, una situazione di vuoto nel quale il poeta si trova ad operare, un “vuoto attivo” (per riprendere un celebre affermazione di Anceschi) in cui si trovano ad operare tanto autori che cercano di “puntellare le rovine coi frammenti”, tanto autori che non cercano di “puntellare” niente.

Molti degli autori (per lo più giovani) a cui sto pensando sono, si direbbe, degli “epigoni”, ma la definizione deve perdere la sua connotazione negativa, perché non possiamo più considerare la Storia secondo le categorie moderne di “novità e superamento”. L’epigonismo è infatti la vicenda di colui che si muove fra i frammenti della metafisica e del nichilismo, l’epigonismo è un modo (nuovo) di essere al mondo, con tutta la coscienza storica che il soggetto si porta dietro. Il movimento dell’epigono non guarda a un solo maestro, guarda a un proprio canone e ad una propria tradizione “canonizzata”, “formalizzata”, di cui però conosce benissimo l’arbitrarietà. La sua “scelta” è sin dalla partenza macchiata da un’epochè, il suo movimento nella tradizione è il segno che è pronto a nutrirsi di tutto, a fagocitare tutto, ad orizzontalizzare, in sé, tutto.

La “vita”, di cui tanti si riempiono la bocca (quante volte abbiamo sentito il motivetto “una poesia più vicina alla vita”?), è in questi autori che si ritrova. Non si trova nei sedicenti difensori di una poesia “semplice” o volgarmente magmatica, si trova, cerco di spiegarmi, in questi poeti-critici sempre pronti a porre dei dubbi, sempre pronti a giocare la propria partita su un palcoscenico traballante e senza punti fissi. Autori capaci di fare i conti con la vita, che vuol dire, tragicamente, fare i conti con il movimento, cioè con una critica continua e a tutto campo.

Si dirà che porto acqua al mio mulino, è vero solo in parte, perché non si tratta qui di difendere una poesia-critica di tipo “debole”, aperta, contingente, ironica, giocosa o disperata nella sua “frammentarietà” (Ariano? Baldi? Gezzi? Santi? Guglielmin? Nacci? Fantuzzi? Simonelli?), si tratta di difendere qualsiasi tipo di poesia che, pur andando poi da tutt’altra parte (Giovenale? Orgiazzi? Temporelli? Massari?) ha con questa contingenza fatto i conti.

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