giovedì 21 giugno 2007

Su la nuova edizione de Il poema dell'esilio di Gëzim Hajdari


recensione di Vincenzo D'Alessio
nominato il 2 giugno 2007 Cavaliere dell'Ordine “Al merito della Repubblica Italiana"

La poesia denuncia del poeta albanese esula in Italia Hajdari è una dirompente massa d’informazioni assimilabile ad un fiume in piena che a stento viene trattenuto dagli argini, in questo caso dagli argini delle parole. Le immagini che emergono dai versi, quasi in forma di prosa racconto, hanno scavato ancora di più, dalla loro prima uscita, l’alveo dell’emarginazione dovuta all’esilio: necessario per salvarsi l’esistenza terrena ma frustrante per non poter morire da protagonista nella terra delle sue radici, quella delle aquile.
Un esilio difficile da conciliare con i familiari rimasti in Albania. Un grido di dolore interminabile per quanto accade nella terra che si conosce per tradizioni, sangue degli avi, socialità e religione. Nel recensire la prima uscita di questo Poema dell'esilio ricorremmo ai versi di molti altri poeti che avevano vissuto una analoga esperienza, spesso con un epilogo tragico. Il bilinguismo consente al poeta di non staccarsi completamente dall’idillio con la madre terra d’origine ma genere nel contempo la voglia di essere accettato, condiviso, con la popolazione della madre patria. Cosa che purtroppo non avviene in modo evidente data l’alta qualità dei contenuti opposti al clima che si respira oggi in Albania.
Basta per demolire la forza motrice del poema la visita del presidente americano attuale in quella terra: mentre in Italia ci sono stati veri e propri cortei contro la sua presenza, in Albania c’è stato un bagno di folla immenso, smisurato, che ha fatto del presidente americano un leader per la pace e per l’autonomia del Kosovo. Praticamente leggendo i versi di Hajdari si riconosce la validità delle sue affermazioni circa il connubio generato tra i vecchi leadr bolscevichi, oggi democratici, e il potere di una nazione come l’America che vuole apparire portatrice di democrazia. Ma quale democrazia?
Quale popolo può farsi ispiratore di princìpi tanto grandi e puri da essere assunti da altre nazioni a base del proprio vivere civile oggi?
L’Albania ha una grande storia di lotta contro gli oppressori alle proprie spalle e la sua antichità non è certo simile ad una nazione giovane come gli States.
Bastano le figure di Fan Noli, di Kasem Trebeshina, F. Reshpja citate in questo poema a decretare che ai giorni nostri l’Albania sta conoscendo una involuzione lugubre verso un finale scontato. Tra questi poeti si inserirà anche il Nostro autore in un arco di tempo che non è dato conoscere.
Pagine intrise di un profondo malcontento, di una inguaribile orma di dolore che si insinua in una terra, l’Italia, chepure non è il massimo in tema di libertà democratica. Eppure in questa nuova terra il Nostro ha trovato ospitalità, lavoro, pace per sé e per i suoi cari, una nuova cittadinanza, l’affetto di una popolazione che ha diverse radici e diversa sensibilità sociale.
Chi è disposto, politicamente, in Albania oppure in Italia ad ascoltare la voce dei poeti che denunciano i misfatti degli stessi identici politici intramontabili nei loro tranelli? Il denaro ed il potere (qualche volta è presente anche la religione) sono i cavalli da montare per smontare le forze della democrazia che innalzano gli ultimi, gli esuli, gli anziani, i bambini, i portatori di handicap, i sordi, i muti, gli emarginati, i poeti.
L’ombra della repressione è presenza costante in mezzo ai popoli e nulla potrà dissetare la sete di sangue che uomini ammalati di potere nutrono contro le povere esitenze di tanti umili chiamati nemici della patria, della bandiera, delle idee democratiche, della fede.
Quanto tempo ancora dovremo aspettare perché in ogni parte del nostro pianeta venga ascoltata la “poetidemocrazia”?

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