martedì 3 aprile 2007

«La città dagli ardenti desideri». Mario Luzi custode e cantore della civitas*



di Bernardo Maria Gianni (la II parte di questo saggio si trova qui)

A Mario Luzi,
in memoriam


«L’idea e l’immagine della città per me non è mai stata tanto quella puramente paesistica, quanto il suo insieme e la sua comunità. È stata sempre civitas più che urbs. E può benissimo dirsi immagine agostiniana. La città è un corpo, percorso da diverse pulsioni dell’agire umano e storico, ma è anche realtà illuminata dalla natura. È vero che il mio destino è stato più quello di segnare come auspicio i termini vitali della città, mentre dati storici o di cronaca osservati mi hanno più spesso significato l’offensiva del male, nelle sue diverse forme. La città sotto l’azione della violenza e della corruzione si disgrega, come Alessandria in Ipazia, come la città moderna, Firenze, sotto l’alluvione. La raffigurazione, naturalmente, è reale e simbolica nello stesso tempo e vuole denunciare che la città umana senza idea vitale si sfascia.» [1]

Sono queste le parole con cui Mario Luzi, rispondendo a Stefano Verdino in una conversazione pubblicata nel 1997, cercava di render ragione della cordiale e partecipe ospitalità accordata nella sua opera alla città, accoglienza creativa che possiamo facilmente immaginare l’esito di un vigilante ed appassionato sguardo su di essa, realtà organica e memoria vivente che il poeta vuole e deve ascoltare, custodire, emendare, riscattare.
Nemmeno la palude di lurido fango che il diluvio del 1966 rovescia come ignobile pellicola di morte e distruzione su Firenze riesce ad annegare la speranza del poeta, la cui memoria biblica si fa accorata e addirittura orante testimonianza del mistero pasquale cui allude un fulmineo, ma esplicito inciso del dialogo ospitato nella lirica intitolata Nel corpo oscuro della metamorfosi, ai vv. 20-43:


«Prega», dice, «per la città sommersa»
venendomi incontro dal passato
o dal futuro un’anima nascosta
dietro un lume di pila che mi cerca
nel liquame della strada deserta.
«Taci» imploro, dubbioso sia la mia
di ritorno al suo corpo perduto nel fango.

«Tu che hai visto fino al tramonto
la morte di una città, i suoi ultimi
furiosi annaspamenti d’annegata,
ascoltane il silenzio ora. E risvegliati»
continua quell’anima randagia
che non sono ben certo sia un’altra dalla mia
alla cerca di me nella palude sinistra.
«Risvegliati, non è questo silenzio
il silenzio mentale di una profonda metafora
come tu pensi la storia. Ma bruta
cessazione del suono. Morte. Morte e basta.»
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«Non c’è morte che non sia anche nascita.
Soltanto per questo pregherò»
le dico sciaguattando ferito nella melma
mentre il suo lume lampeggia e si eclissa in un vicolo.
E la continuità manda un riflesso
duro, ambiguo, visibile alla talpa e alla lince. [2]


Ancora una significativa allusione alla sopravvivenza si rinviene in una lirica che ci rammenta l’altra grande ferita inferta alla Firenze del ’900, quella della seconda guerra mondiale. Il poeta contempla la sua città, nobile e sofferente, dall’alto del passo della Consuma, in Memoria di Firenze (1942):


E quando resistevano
sulla conca di bruma
le tue eccelse pareti sofferenti
nella luce del fiume
tra i monti di Consuma,
più distinto era il soffio della vita
intanto che fuggiva;
e là dove sovente s’ascoltava
dai battenti socchiusi delle porte
origlianti la luna
la tua voce recedere in assorte
stanze ma non morire,
non un pianto, una musica concorde
coi secoli affluiva. Senza un grido,
né un sorriso per me lungo le sorde
tue strade che conducono all’Eliso… [3]



Una città, invece, ancora inesplorata, per il suo immediato apparire come meta sospirata ed organica compagine di singole biografie e di vicende collettive, di case, mestieri, mercati e chiese, si lascia immaginare dalla partecipe fantasia del poeta, «nuovo di queste vie, ma non straniero», con evocative metafore che rimandano a secolari monasteri o a navi che traghettano, come biblica arca, l’esistenza. Alla mirabile Richiesta d’asilo d’un pellegrino a Viterbo, la città dove il poeta sosta presumibilmente nel 1954 per gli esami di maturità, si accompagna una suggestiva prosa coeva alla lirica, edita per la prima volta nel 1955, dove Luzi così scrive: «Viterbo appare come il termine o la tappa favolosa ai sensi afflitti dell’antico pellegrino dopo un duro viaggio… la città si leva intorno come un grande bugno picchiettato di luci nelle cui celle stanno artigiani, frati, mercanti mentre lo spazio sconfinato s’abbuia». Ancora: «L’umile fontana quasi claustrale che era perché le donne fiere e fini di qui vi attingessero acqua s’innalza tazza su tazza tra le linee avvolte e rotte dalle statue a creare un grande spettro». E come si diceva, oltreché in un cenobio, il dedalo luminoso di case e di anime immerso nel buio e nel vento della notte fa immaginare al poeta di trovarsi «sul ponte di una nave ancorata nello spazio e nel tempo». [4]
Così invece, nel ritmo peculiare della poesia, le ultime tre stanze:


La donna prende acqua alla fontana,
risale su per il proferlio, guarda
quella nave ancorata nel cielo ch’è Viterbo
poi rientra, sparisce nell’interno
della casa, della città, del tempo.

Nuovo di queste vie, ma non straniero
ho sentito l’infermo sulla soglia
pregare per la sorte di quest’arca
con il suo andirivieni d’operai,
le sue case crepate, i suoi animali,
i suoi vegliardi acuti ed i suoi morti.

Ho lasciato alle porte i miei cavalli,
ho chiesto asilo e molto supplicato
d’esser preso a farne parte. Vigila
ora tu, scruta i segni della notte. [5]


Non diversamente dal dialogo ospitato fra le stanze già ricordate di Nel corpo oscuro della metamorfosi,[6] anche qui si ritrova l’allusione alla preghiera come vitale relazione che ospita nel cuore dell’orante l’intera civitas: vero custode della porta della città è infatti «l’infermo», immobile e forse reietto, ma capace di «pregare per la sorte di quest’arca/ con il suo andirivieni d’operai». E al poeta, che supplica di entrare a far pienamente parte di quella communio civile, si deve adesso sostituire qualcuno che sia capace di vegliare sulla città, capace di scrutare ciò che le notte prepara, come incubo, minaccia o speranza, mentre la civitas è avvolta dal sopore.
Altrettanto intenso e viscerale è l’approdo al cuore della città che il poeta immagina esperito da un grande maestro del Gotico Internazionale, cui Luzi ha dedicato una delle sue più ispirate sillogi: il Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, edito a Milano nel 1994. Non si farà fatica a scorgere come anche l’impianto urbanistico e gli elementi architettonici di Siena, analogamente a quanto si è già notato a proposito della Richiesta d’asilo d’un pellegrino a Viterbo, rimandino con ancor maggiore pathos al vissuto della civitas che nasce, muore e quasi s’eterna in quelle strade e in quelle case:


E ora lo conduce la vacanza
al cuore antico della sua città
stralunata dalla feria.
E lui si perde
– sono io ancora? –
dall’una all’altra
in quelle stupefatte vie
attirato in una rete
d’immaginate e vere sofferenze,
evoca – alcuni ne rivede
con il fiato sospeso
tra memoria e senso –
coloro che accesero con lui
di vita quelle alte case
e vi portarono morte,
misero eternità in quelle stanze.
Il tempo, lo sente nella carne,
pieno e vuoto di loro
in sé tutto equipara,
però non li elimina
di tutta
quella caducità si gloria,
e umilmente la glorifica. Città. Torri. [7]


Allo sguardo del pittore era già parso che la luce del tramonto svelasse l’autentica, drammatica, fragile consistenza del nobile tessuto che fa di una città, prima ancora che un sistema di edifici e di spazi, un «costato» ferito dalla vita:


Nel ricordo o nel presente?
Entra, sera di sole,
sera estrema di solstizio
nel costato di Firenze,
ne infila obliquamente
i tagli, le fenditure,
ne infiamma le ferite,
le croste, le cicatrici,
ne infervora le croci,
le insanguina copiosamente.
Lui controcorrente
si trascina la sua ombra
verso quella sorgente.
In fronte gli si scheggiano le linee,
gli si disfanno le moli,
gli si frantumano i tetti
sopra una polverizzata gente.
Risale lo sfacelo,
scansa quelle macerie
di una ancora
non cancellata
e non assolta storia,
voglioso di primizia,
avido di semenze.
Non empio, non ingordo,
servo della vita – e basta. [8]


Privilegiato è tuttavia lo sguardo eccentrico che solo rende il ‘poeta Luzi’ a Viterbo e il ‘pittore Martini’ a Siena capaci di lasciarsi avvincere dall’immagine complessiva della città a lungo cercata e desiderata, la cui vivente compagine distesa nel paesaggio interpella e incalza il cuore del civis che di lontano la contempla, per una rinnovata e ancor più generosa volontà di partecipazione:


Mi guarda Siena,
mi guarda sempre
dalla sua lontana altura
o da quella del ricordo-
come naufrago?-
come transfuga?
mi lancia incontro
la corsa
delle sue colline,
mi sferra in petto quel vento,
lo incrocia con il tempo-
il mio dirottamente
che le si avventa ai fianchi
dal profondo dell’infanzia
e quello dei miei morti
e l’altro d’ogni appena
memorabile esistenza…
Siamo ancora
Io e lei, lei e io
soli, deserti.
Per un più estremo amore? Certo. [9]


Infine, non meno intenso, e volutamente enigmatico e quasi inesausto, il congedo fra il pittore e la sua città:


Si ritira da me lei, mia città,
e io da lei. Finito il tempo dato,
l’amalgama perduto
oppure fondono
vissuto e non vissuto
in quel celeste sovrumano tedio
sempre atteso, sempre in agguato… [10]


Più che alla statica e concreta oggettivazione topografica dell’urbs, precipuamente interessato –come già sappiamo - alla vivente vicenda della civitas,[11] Luzi non manca semmai di utilizzare, con la forza e la logica tutte precipue del simbolo,[12] quanto dell’urbs possa esprimere la vitale consistenza e al contempo l’incessante tornitura della storia con la conseguente stratificazione e, anche, cancellazione della memoria proprie della civitas: potrà essere la pioggia che consuma i tetti, potrà essere il fiume che incide il tessuto urbano, potrà essere la pietra che ospitando «nella sua cavità, nelle sue celle rigorosamente distinte l’alveare umano registra e lascia depositare su di sé gli eventi», permettendo altresì che tutto sia lavato e cancellato «quasi per un ricominciamento continuo della natura».[13] La città, nella sua organica condensazione di vita vissuta, pare insomma inesorabilmente esposta all’inesausta tensione tra memoria e oblio, tra sedimentazione ed erosione, tra puntuale ciclicità e ineluttabile, repentina e inaspettata metamorfosi.[14] La stessa compagine di pietre, strade e piazze può rendersi irriconoscibile agli occhi del poeta, come testimoniato e sigillato dai versi di una inquieta lirica appartenente alla raccolta Frasi e incisi di un canto salutare, edita a Milano nel 1990:


Non fu pari all’attesa,
si sfece in brevi tessere
di una invetriata cerimonia
il tanto vagheggiato incontro.
Parole non mancavano, mancava
se mai la loro musica. E Firenze
non ne aveva
di sua, non ne emanava
dalle segrete camere, neppure
ne perdeva da occulte fenditure
o da malchiuse porte come un tempo-
quale? – non ricordavo. Ci appariva
insolita Firenze. Stava muta,
impiccata allo strapiombo
delle sue nere muraglie,
rigata dalle lacrime
di luce delle sue alte lampade
Era insolita nel volto
o noi troppo mutati suoi nottambuli
attraversati da lei, passati oltre. [15]


A proposito di questi versi e dell’occasione che li motivò così Mario Luzi, in un dialogo intrecciato ancora con Stefano Verdino, ebbe modo di postillare:

«È una Firenze non ritrovata, attraverso i miei compagni; vedo la città staccata, non è più quella dei nostri tempi. L’immagine della città è impervia, perché non contiene più le nostre illusioni. C’eravamo dati un appuntamento per fare festa – e questo è accaduto molte volte, a me e ad altri - e poi ci si è trovati davanti a una sorpresa, a qualcosa che si presenta altro.» [16]

È forse in questa lucida consapevolezza, come cioè il tempo – e qui s’intende il nostro tempo, la nostra inquietante, se non «violenta», contemporaneità- laceri il tessuto connettivo delle nostre città, trasformandone gli abitanti da comunità di persone a singoli individui e da «moltitudine» a «massa»,[17] che si dovrà individuare la ragione e il senso di molta della vibrante lirica soprattutto dell’ultimo Luzi, così attento a riformulare un dettato poetico animato da un accorato accento etico, se non addirittura ‘civile’, per certe sue composizioni che non a caso avranno sempre più nelle vicende drammatiche della nostra cronaca feriale il loro sofferto kairòs e la loro più vera ispirazione: [18]

«Oggi c’è una moltitudine di uomini isolati e non comunicanti. La sera, quando esco, come d’abitudine, vedo queste strade vuote, dove non c’è nessuno, tutti si sta chiusi in casa. Nelle città è venuta proprio meno la comunicazione e la città invece era questo, era comunicazione. È una fase storica che finisce e la civiltà che ci aspetta sarà probabilmente disseminata in particole in tutto il pianeta e non avrà molto interesse alla città, all’urbe. Vi saranno città di servizi, conglomerati di uffici, ma la società urbana tende all’estinzione. Ai tempi di Cristo le moltitudini convivevano la stessa sorte, mentre noi oggi non conviviamo la nostra, la subiamo ciascuno per conto proprio. È un sintomo visibile tra i più drammatici del nostro tempo. Una specie di profeta che deve parlare alle moltitudini parla per TV, per immagine televisiva, trovando ciascuno chiuso nella sua cellula. Anche l’incarnazione come sarebbe oggi? L’incarnazione fu così perché l’uomo era visibile e legato in una comunità che ne condivideva le pene; l’uomo era circoscritto nella sua fisicità, nel suo corpo che ebbe così importanza e valorizzazione nell’eucaristia. E oggi dove si incarnerebbe il divino? forse in Internet. Qualche volta d’improvviso capita ancora di osservare qualche aggregazione civile e urbana. Mi capita ad esempio quando vado a Ferrara; lì mi pare di ritrovare il clima della città come fu fino agli anni ’50: la gente che va in bicicletta, in piazza si formano i crocchi di conoscenti e amici, però si tratta per lo più di vecchi.» [19]


Sappiamo già da quelle primissime riflessioni di Luzi con cui avevamo aperto queste nostre pagine, quale siano le risposte a quanto Stefano Verdino gli andava domandando in ordine alla composita percezione della città che il poeta mostra di avere nelle sue liriche, caratterizzate, ormai lo sappiamo, dal ricorrente motivo della «città dell’uomo, segnata dall’afflizione e dall’avvilimento», ma capace anche di «consentire improvvise epifanie della grazia […] ovvero caratterizzarsi come agone tra i tragitti di morte che quotidianamente la percorrono e le spinte della vita, in genere elargite dalla natura».[20] A conforto di questi suoi pertinenti rilievi Verdino citava opportunamente il finale di Lavata – (Belfastina), che, occasionata da un soggiorno di Luzi a Belfast nell’autunno del 1985 e ispirata dalla desolante guerriglia urbana fra cattolici e protestanti, si apre con l’immagine eloquente di una città non ancora sufficientemente lavata da quel sangue che «corre/ verso le chiaviche/ flagellato dagli idranti,/ incalzato dalle spazzole» e si chiude con un siffatto explicit:


Calma
si offre la città
alla muta
ispezione dei gabbiani.
Calma
l’isola dispensa
equa
la sua domenica di pioggia
a tutte le sue parti,
a tutta la sua erba.
Cresce o muore l’esperienza.
O, ancora,
ammassa loglio nella sua riserva. [21]


Ed è proprio questo «agone» fra i «tragitti di morte», qui significati dal «sangue», e «le spinte della vita», sovente «elargite dalla natura» e qui evocate dalla calma quiete durante la «muta/ ispezione dei gabbiani», che suggerisce a Stefano Verdino prima di domandarsi «se questo modo di guardare alla città non sia qualcosa di un po’ diverso dal motivo metropolitano, generalmente infernale, tipico della modernità», quindi di interrogare de hoc lo stesso Luzi:

«Sia nella doppia tipologia della raffigurazione cittadina, nella città prostrata, o nella città come luminosa epifania, infine nel dibattimento di immagine negativa e positiva non è possibile ritrovare le matrici del tuo agostinianesimo? In altre parole avverti anche tu la lotta tra la città di Dio e la città dell’uomo?» [23]

La risposta, significativamente affermativa, di Luzi ci ha già informato di come per questi «l’idea e l’immagine della città […] non sia mai stata tanto quella puramente paesistica, quanto il suo insieme e la sua comunità. È stata sempre civitas più che urbs. E può benissimo dirsi immagine agostiniana».[23] E ancora, forti dell’itinerario poetico appena compiuto in queste pagine, possiamo essere certi di quanto nell’officina creativa di Luzi si riversi il lucido bagliore dello sguardo di Agostino che intuisce come la città di Dio e la città degli uomini siano, nella nostra storia, perplexae e permixtae.[24] Ecco perché, ancora nello stesso locus ora citato, Luzi così lucidamente sentenzi: «la città sotto l’azione della violenza e della corruzione si disgrega, come Alessandria in Ipazia, come la città moderna, Firenze, sotto l’alluvione. La raffigurazione, naturalmente, è reale e simbolica nello stesso tempo e vuole denunciare che la città umana senza idea vitale si sfascia». [25]
La sofferta diagnosi di Luzi in ordine alla rottura, a prima vista irreparabile, del nesso vitale fra «città» e «comunicazione», con la conseguente riduzione della civitas a una inerte «moltitudine di uomini isolati e non comunicanti», sintomo indubbio di una «fase storica che finisce», e, al contempo, la sua nitida percezione, appassionatamente da «denunciare», della «necessità» di un’«idea vitale» per scongiurare il rischio che «la città umana […] si sfasci», paiono assai consonanti con gli appassionati e risoluti appelli che Giorgio La Pira (1904-1977) aveva ripetutamente lanciato nelle più diverse assisi.[26] Fra questi vi è un celebre discorso, tenuto al Convegno dei Sindaci delle città capitali di tutto il mondo il 2 ottobre 1955 a Firenze, il cui testo ormai si accompagna sempre con il significativo titolo: Per la salvezza delle città di tutto il mondo. Ebbe fra l’altro a dire l’allora sindaco di Firenze a quel prestigioso consesso:

«La crisi del nostro tempo - che è una crisi di sproporzione e di dismisura rispetto a ciò che è veramente umano - ci fornisce la prova del valore, diciamo così, terapeutico e risolutivo che in ordine ad essa la città possiede. Come è stato felicemente detto, infatti, la crisi del tempo nostro può essere definita come sradicamento della persona dal contesto organico della città. Ebbene: questa crisi non potrà essere risolta che mediante un radicamento nuovo, più profondo, più organico, della persona nella città in cui essa è nata e nella cui storia e nella cui tradizione essa è organicamente inserita. E prima di finire questo discorso sul valore delle città per il destino della civiltà intiera e per la destinazione medesima della persona, permettete che io dia un ammirato sguardo d'insieme alle città millenarie, che, come gemme preziose, ornano di splendore e bellezza le terre dell'Europa e dell'Asia. Signori, ci vorrebbe qui, per parlare di esse, il linguaggio ispirato dei profeti: di Tobia, di Isaia, di Geremia, di Ezechiele, di San Giovanni Evangelista. Per ciascuna di esse è valida la definizione luminosa di Pèguy: essere la città dell'uomo abbozzo e prefigurazione della città di Dio.» [27]

[continua…]


* I testi poetici di Luzi citati in queste pagine sono sempre quelli editi nell’opera omnia in versi pubblicata nella prestigiosa collana de «I Meridiani» di Mondatori: M. LUZI, L’Opera poetica, a cura e con un saggio introduttivo di S. Verdino, Milano 1998. Il volume include, alle pp. 1825-1882, un’abbondantissima bibliografia. Mario Luzi nacque a Castello, presso Firenze, il 20 ottobre del 1914 ed è morto a Firenze il 28 febbraio del 2005. Carlo Azeglio Ciampi, Presidente della Repubblica Italiana dal 1999 al 2006, lo nominò senatore a vita il 14 ottobre del 2004 «per aver illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo letterario ed artistico» (cfr. www.quirinale.it). Il poeta è sepolto nel piccolo cimitero della sobborgo natale. La collocazione di una lapide commemorativa nella basilica fiorentina di Santa Croce ha ormai ascritto Mario Luzi alle «itale glorie».

[1] M. LUZI, La porta del cielo. Conversazioni sul cristianesimo, a cura di S. Verdino, Casale Monferrato 1997, p. 108.

[2] LUZI, L’Opera poetica, cit., p. 379. La lirica apparve nel 1969 sulle pagine de «L’Approdo letterario».

[3] LUZI, L’Opera poetica, cit., p. 112.

[4] LUZI, L’Opera poetica, cit., p. 1475.

[5] LUZI, L’Opera poetica, cit., p. 234.

[6] Cfr. i vv. 20-24: «“Prega”, dice, “per la città sommersa”/ venendomi incontro dal passato/ o dal futuro un’anima nascosta/ dietro un lume di pila che mi cerca/ nel liquame della strada deserta». E ancora, ai vv. 38-39: «Non c’è morte che non sia anche nascita. / Soltanto per questo pregherò».

[7] LUZI, L’Opera poetica, cit., p. 1083.

[9] LUZI, L’Opera poetica, cit., p. 1059.

[10] LUZI, L’Opera poetica, cit., p. 1075. La forza emotiva generata dallo sguardo eccentrico, ovvero periferico, sull’intera città è capace altresì di suscitare timorosa soggezione nel cuore di Simone Martini, che, guardando Firenze da lontano, intuisce di trovarsi di fronte ad una città tanto attraente quanto, al contempo, inquietante per il suo essere, nel dedalo delle sue strade, fecondo laboratorio di avanguardia per nuove estetiche e per nuovi stili figurativi: «Si approssima Firenze./ Si aggrega la città. / S’addensano i suoi prima / rari sparpagliati borghi. / S’infittiscono / gli orti e i monasteri. / Lo attrae nel suo gomitolo, / ma è incerto/ se sfidarne il labirinto/ o tenersi alla proda, non varcare il ponte. / Il seguito è sfinito. Il sonno e il caldo/ ne annientano il respiro. / È là, lei, la Gran Villa / che brulica e formicola. / Di là dal fiume. Lo tenta / e lo respinge, / ostica, non sa / bene in che cosa, ma ostica / eppure seducente, vivida. […] A lui piace e non piace quel vigore/ dei corpi, quella forte/ passione delle forme. / […] Ah Firenze, Firenze. Sonnecchiano/ intontiti i viaggiatori nella sosta./ Meglio rimettersi in cammino,/ prendere la via di Siena, immantinente» (LUZI, L’Opera poetica, cit., pp. 1055-6).

[10] LUZI, L’Opera poetica, cit., p. 1087. E ancora: «Ti perdo, ti rintraccio, / ti perdo ancora, mio luogo, / non arrivo a te. / Vanisce / nel celeste / della sua distanza / Siena, si ritira nel suo nome, / s’interna nell’idea di sé, si brucia / nella propria essenza / e io con lei in equità,/ perduto/ alla sua e alla mia storia… / Oh unica / suprema purità… Oh beatitudo» (LUZI, L’Opera poetica, cit., p. 1094). Significativi pure i versi scritti da «lontano» per il paese natale dei genitori, Semproniano, borgo della Maremma grossetana: «Ci vorrebbe più pace, o almeno più arte – / dico al parroco di Samprugnano con molto rammarico / mentre guardo la carta intitolata ai santi / Vincenzo ed Anastasio della sua lettera inevasa / con l’amabile richiesta di versi/ in onore del paese, in lode dell’alveare umano / petroso vegetale da cui resto / lontano, di cui pure sono parte. // […] Del resto / per i figli, come me, della diaspora / il paese a pensarlo in lontananza/ si arrocca nella sua fitta compagine, / nella sua memoria comune, nella sua comunione del presente, / realtà profonda fino ad una profondità di favola/ simile a tutto ciò che ci stupisce, e non è altro che la vita, la vita medesima» (LUZI, L’Opera poetica, cit., p. 1202).

[11] Si allude qui alla dottrina ciceroniana – assai cara a Giorgio La Pira – secondo cui il popolo è un’associazione i cui membri (come peraltro insegnano Gaio e Giustiniano con i suoi giuristi), sono gli universi cives, ovvero coloro che, abitando l’urbs, costituiscono la civitas, integrando così la urbs civitas, per usare la endiadi eloquente dei grammatici romani. Il primo sostantivo di cui Paolo-Giustiniano tratta, nel sedicesimo titolo del Libro L delle Pandette, il De verborum significatione, è precisamente urbs: «‘Urbis’ appellatio muris, ‘Romae’ autem continentibus aedificiis finitur, quod latius patet». È bene ricordare come la scissione tra civitas e urbs comporti il venire meno di quella societas civium che proprio nella urbs e nel condominio dei ‘muri’ della urbs trova il suo nucleo determinante. Cfr. a proposito l’insegnamento di Cicerone, Off. 1.17.53: «Gradus autem plures sunt societatis hominum […] interius etiam est eiusdem esse civitatis: multa enim sunt civibus inter se communia, forum, fana, porticus, viae, leges, iura, iudicia, suffragia, consuetudines…».

[12] De hoc basti P. RICOEUR, Il simbolo dà a pensare, Brescia 2002.

[13] Si pensi ad una lirica tratta dalla suite intitolata Un mazzo di rose: «Piove fitto, pluvia / antica primavera/ sulle antiche mura, / dilava la città, / di noia / e di tempo la defluvia, / le porta vita, / ne sente / – e se ne inebria – / il primo insulto / in tutti i suoi giardini, / in tutte le sue altane / ancora risecchito, / di spoglie anche le allevia, / scorie, ceneri, immondizie / franate in rigagnoli e fossati / tutto corre al fiume… / Il fiume non si oppone / accoglie ciò che il tempo / dell’uomo e la natura / gli propina, altro ancora / in momenti di turgore / lui medesimo rapina, / li assolve poi nella sua magnificenza, / li prepara alla disparizione/ ed al ritorno, dov’è? alle stesse rive / tra case, muraglioni, rupi, in volti alle finestre, / fronde d’alberi, nuovi / effimeri firmamenti cittadini» (LUZI, L’Opera poetica, cit., p. 1151). L’immagine del fiume che solca incessantemente la città significando, al contempo, trasformazione, continuità e ciclicità torna in un’altra lirica della stessa raccolta: «[…] Si porta,/ eccola, i riflessi, / gli spregi, le onte / dei paesi rivieraschi, / le lordure dei ristagni, / spoglia di vanagloria / i ponti, le città / dei loro futili trionfi, / li dissolve, li vanifica, / massa piana compagine / messa rotta gareggiante, / flusso d’acqua / nell’acqua verso l’acqua / del futuro tempo. / Oh continuità, / oh ritorno su se medesimo/ di ogni cominciamento» (LUZI, L’Opera poetica, cit., pp. 1148-9). Per la pietra e, ancora, l’acqua, metafore ‘urbane’ di memoria e cangiamenti, si mediti sul già ricordato passo di Trame, volume riedito nel 1982: «La presenza della pietra a Firenze è trionfale. […] Questa pietra che ospita nella sua cavità, nelle sue celle rigorosamente distinte l’alveare umano registra e lascia depositare su di sé gli eventi, le passioni e le ugge di generazioni, ma anche le espone al lavaggio e alla cancellazione: quasi per un ricominciamento continuo della natura. Infatti poche città così antiche sono così poco muffite e stagnanti dentro e fuori» (LUZI, L’Opera poetica, cit., p. 1567). In Giovinetta, giovinetta, l’ultima lirica de La barca, così tratteggia la geografia urbana del capoluogo toscano: «le scogliose vie di Firenze / disperse in un etereo continente» e le sue «livide pietre dei crepuscoli» (LUZI, L’Opera poetica, cit., p. 41). Infine, a proposito, ancora un lacerto poetico, l’incipit di una lirica del Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini: «Discese su Firenze una triste sera./ Oppure trasalì dalle sue pietre, / entrò dalle sue porte? / Non conobbe / la mente / e neppure il profondo cuore seppe / il perché di quella pena […]» (LUZI, L’Opera poetica, cit., p. 1060).

[14] Sono gli accenti che ritornano nella narrazione poetica di un ulteriore approdo del poeta nel tessuto vivente della città, anzi «nel suo antico ventre», dove il simbolo del fiume è funzionale a ribadire metaforicamente il perpetuo agone fra la possanza dei «marmi» e il «fluente», incessante, «moto» delle acque verso la foce, simbolo di «morte» e di «ricominciamento». La città è Pisa e la raccolta ospitante è Frasi e incisi di un canto salutare: «Si condensa, laggiù, la luce,/ già è una tumida albescenza. / Moli, poi, volumi – / è Pisa / quel candore / in quella piana / in fondo a quella chiostra. / Le vado incontro / io fiume Arno / così prossimo / alla foce / le vado continuamente / sopraggiunto dalle mie acque, / spinto dalla mia corrente / ed ecco mi si approssima, / mi è sopra con i suoi marmi, / mi stringe con i suoi ponti, / mi attira nel suo antico ventre / e io? / io entro nel doloroso grumo, / divento cupo e risplendo, / la rubo in immagine / col mio specchio fluente, / la frantumo, / la sbriciolo nel mio / molecolare lampeggiamento, / adesso non è più niente, / la supero, la dimentico / nel mio moto verso il mare, / la morte, il ricominciamento. / Sappiamo questo io e lei, / lei e io nell’universale grembo» (LUZI, L’Opera poetica, cit., pp. 874-5). Cfr. ancora i versi di Inferma, così, lirica appartenente alla medesima raccolta della precedente: «Inferma, così / forse si sente; / e arida. / Le viene meno / un suo profondissimo fervore / le brucia / nelle vertebre / la dura / geometria delle sue moli. / Spiomba / lei / di notte / nelle sue stellate fosse, / scoscende nel suo scheletro, / le duole in ogni parte / la invetrita massa. / Qual è il male? / È là, ancora, il fiume / ma dove il fluviatile / del fiume, dove l’anima? / È la spoglia / quella, chiusa in quella abbacinante bara. / È morto / allora? o sceso / in una vitrea / immobilità, il fachiro? / Ed ecco, le manca / in mezzo alle sue pietre / quel flusso d’acqua e luce, / d’acqua e notte / con stelle e sole / che si sfanno / in torce ed in facelle, / le manca quella vena, / non sente sotto il pettine / dei ponti / quella palpitante chioma. / E soffre / lei, città,/ soffre innaturalmente. / Ma intanto già si scioglie / dalla sua rigidità, / va verso la vita / una vita sotterranea, / le tocca i basamenti, / le alita i cunicoli / un sentore di disgelo… / che cosa porterà con sé il fiume / al suo prossimo risveglio, / la pura ripetizione del già stato / – già stato o già vissuto? / già totalmente passato? – o altro / non conosciuto / che si genera dal mutamento / di quella continuità. / La vita nasce alla vita, / è quello l’avvenimento, quella / la sua sola verità» (LUZI, L’Opera poetica, cit., pp. 863-4). Alcuni di questi versi sono stati da Luzi stesso così glossati: «<è> una città che avverte una nuova situazione, quando il fiume è congelato» (LUZI, L’Opera poetica, cit., p. 1284).

[15] LUZI, L’Opera poetica, cit., p. 830.

[16] LUZI, L’Opera poetica, cit., p. 1283. Il testo citato è estrapolato dalla conversazione di Mario Luzi e Stefano Verdino originariamente edita nel 1995 col titolo A Bellariva. Colloqui con Mario, a cura di Stefano Verdino, poi integralmente ripubblicata nell’edizione de «I Meridiani».

[17] Per una significativa distinzione fra «moltitudine» e «massa», cfr. lo stesso Luzi: «Massa è una accezione violenta, fa riferimento a una moltitudine umana su cui è stata esercitata violenza in varia forma, dall’urbanesimo ai reclutamenti dell’industria che hanno comportato drastici movimenti e mutamenti e tolgono individualità e naturalezza alle figure. Massa è certamente l’effetto di una fase violenta della storia» (l’osservazione si legge in LUZI, La porta del cielo, cit., p. 42).

[18] Si allude qui perlomeno ai seguenti componimenti: Belfast 21 Novembre, Palermo, Aprile ’86, Piazza pulita (dedicata alla sanguinosa repressione della rivolta studentesca contro il regime comunista iniziata con l’occupazione, il 13 maggio 1989, della piazza Tien An Men a Pechino) e, infine, Le donne di Bagdad (scritta in occasione della cosiddetta guerra del Golfo scoppiata nel gennaio 1991 tra gli USA con gli alleati NATO e l’Iraq, a seguito dell’occupazione del Kuwait nell’agosto 1990 da parte dell’esercito del dittatore iracheno Saddam Hussein). Le liriche in questione si leggono in LUZI, L’Opera poetica, cit., rispettivamente alle pp. 1208-9, 1210-11, 1217 e 1218-9.

[19] LUZI, La porta del cielo, cit., p. 43.

[20] LUZI, La porta del cielo, cit., p. 107.

[21] LUZI, L’Opera poetica, cit., pp. 825-6.

[22] LUZI, La porta del cielo, cit., p. 108.

[23] Già abbiamo infatti più estesamente citato queste riflessioni di Luzi in apertura di questo articolo.

[24] AURELII AUGUSTINI, De Civitate Dei 1, 35: «perplexae quippe sunt istae duae civitates in hoc saeculo invicemque permixtae, donec ultimo iudicio dirimantur».

[25] Cfr. LUZI, La porta del cielo, cit., pp. 108-9.


[26] Una valutazione di Mario Luzi su Giorgio La Pira e «la sua radicata convinzione di ottimismo cristiano» si legge in LUZI, La porta del cielo, cit., p. 25.

[27] Il testo qui citato di Giorgio La Pira si legge anche in www.iisf.it/la_pira.htm.



Bernardo Francesco Gianni, O.S.B. Oliv.
Abbazia San Miniato al Monte
Le Porte Sante, 34
I-5015 Firenze
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