lunedì 12 marzo 2007
da Santa Cruz de la Sierra (Barbara Magalotti)
(i precedenti interventi qui)
Un bell’impatto scendere di quota dai 4000 metri di La Paz ai 300 di Santa Cruz… e con l’aereo poi… Un vero e proprio tuffo nel clima equatoriale: palme, case basse, gente in cannottiera e calzoncini e finalmente… il caldo! Il tanto sognato caldo! Le temperature variano dai 28 ai 40 gradi, a seconda delle nuvole… Oriente boliviano: un altro mondo,altro clima, altri ritmi, altra realtà, altra mentalità… e anche altre fisionomie. Non più i visi secchi e sfilati degli andini, cotti dal sole delle alte quote, il carattere un po’ chiuso, timido, riservato degli indios, la silenziosa
laboriosità dei paceños… qui siamo alle porte dell’Amazzonia, verso il Brasile; i ritmi sono pigri, la gente è chiacchierona e sfrontata… è la terra delle belle donne, dai sederi e le panciotte floride, dalle caratteristiche somatiche più morbide, rotonde… infatti qui ho riscosso un gran successo, visto la mia nota rotondità!!! Ma Santa Cruz de la Sierra è anche la zona dell’intolleranza e del razzismo aperto verso gli indios, verso le “culture antiche”, verso tutto ciò che richiama al passato e alle vecchie tradizioni delle culture cosiddette “originarie” quechua, aymara,
guaranì… proprio quelle che sull’Altiplano sono così rispettate, amate…
E chiaramente, da queste parti, Evo Morales non è molto amato… sarà perché ha requisito/sequestrato ettari e ettari di terreno ai grandi ricchi latifondisti e li ha divisi tra centinaia di campesinos? Il mio cuore è un po’ paceño, per cui soffro un po’ nel sentir parlare male del mio amato Altiplano delle Ande… non oso immaginare come si possano sentire quelle persone che per un motivo o per l’altro, si siano dovute trasferite dall’Altiplano a qua… insomma… è il classico atteggiamento dei leghisti verso i nostri meridionali: tale e quale! Ma a parte questo, Teresa
Cremonesi mi ha accolto con una gentilezza e una carineria squisiti: la mia
nostalgia per La Paz e il carcere San Pedro è stata stemperata soavemente dalla presenza di questa dolce, cara donna, che mi ha ispirato subito simpatia, stima e profondo affetto… non so perché, ma è un po’ come se la conoscessi da tanto tempo e la sento tanto vicina al mio modo di essere e di vivere… la “Casa del Almendro” è un centro educativo e di aiuto alle famiglie, situato in un quartiere molto povero alla periferia di Santa Cruz de la Sierra. Il centro oggi comprende tre classi pre-scolari per bambini da 1 ai 6 anni, dove bimbi con varie problematiche neuropsichiatriche e
bambini normali sono inseriti insieme. Teresa è una donna eccezionale, una mente sempre in fermento, che con la sua professionalità, il suo talento, la sua ferma determinazione, ha saputo creare un punto di riferimento alternativo e assolutamente funzionale per le famiglie più povere del quartiere, con profonde problematiche sociali, non ultime quelle causate dalla presenza in famiglia di una o più persone con handicap fisico o psichico.
Oltre alle educatrici delle tre classi, sono presenti in questo centro: uno psicologo, una fisioterapista, una psicomotricista per la stimolazione precoce, una coordinatrice e chiaramente il personale di cucina. Inoltre è stato avviato un forno, all’interno del quale lavorano 4 donne. Il forno produce pane e prodotti dolciari che vengono distribuiti ai negozi alimentari del vicinato, aiutando la sostenibilità del progetto. La cosa bella e veramente positiva è l’obiettivo che Teresa si è preposta e
che sta brillantemente attuando: aiutare le famiglie a farsi carico in maniera sempre più autonoma dei propri figli, indirizzandole verso modalità più idonee di interazione con i bambini indicando i servizi socio-sanitari ai quali rivolgersi in caso di bisogno, aiutare le famiglie a non considerare i bambini con handicap come irrecuperabili, ma come persone con il diritto di raggiungere il massino livello di sviluppo e grado di autonomia, attraverso le stimolazioni più personalizzate ed idonee al proprio caso. Teresa considera la “Casa del Almendro” come una “casa”, non una scuola o un istituto, una casa dove i bambini, normali e con deficit insieme, apprendono e vivono esperienze educative nuove e diverse da quelle che vivono nel loro ambiente familiare, un ambiente dove si possono relazionare, dove possono interagire ed imparare a vivere insieme, conoscendosi l’uno con l’altro, conoscendo i loro contesti diversi, manifestando liberamente la propria unicità, la propria diversità fisica, economica, sociale, imparando a convivere con quella degli altri. E la cosa bella è che per davvero questa casa è frequentata da famiglie di estrazione sociale e livello economico molto diversi. Questo è veramente eccezionale qui in Bolivia, e dovrebbe essere di esempio e stimolo per la creazione di tanti altri centri come questo.
Con Teresa, pensiamo a come sfruttare la mia permanenza qui a Santa Cruz. Mi propone di aiutare lo psicologo. Ok, ci sto! Siccome da quest’anno si sono aperte due classi in più (ogni classe, di 25 bambini), propongo allo psicologo di organizzare i colloqui con le famiglie dei bambini iscritti per la prima volta al centro, anche per verificare i casi problematici o con maggior bisogno di sostegno. Mi metto subito all’opera e nel giro di qualche giorno comincia la lunga serie di colloqui con i genitori. E durante i colloqui con queste mamme e questi padri, mi capita spesso di ascoltare storie veramente tristi, dure, difficili: famiglie divise, distrutte dalla
povertà, genitori che abbandonano i figli, gente che se ne va per anni a lavorare in paesi lontani, lasciando i figli ai nonni o agli zii, padri e madri incapaci di sostentare la famiglia a causa della disoccupazione, donne costrette a subire violenza, altre a convivere tristemente con l’alcolismo dei mariti… e di nuovo mi viene da pensare alla realtà italiana, a quante volte e come ci lamentiamo per cose futili, ridicole, ma veramente ridicole, a quanto ci facciamo prendere dal nostro egoismo etnocentrico, e non apriamo gli occhi e le orecchie su un mondo intero che trasuda povertà, dolore, ingiustizia… di fronte alle lacrime di una madre stanca,
disperata, sofferente, mi sono sentita piccola, inadeguata, e mi sono chiesta ancora una volta “Cosa possiamo fare perché questa terribile differenza economica tra il Nord e il Sud del mondo sia un po’ meno abissale e vergognosamente distruttiva per il pianeta”; e ancor più piccola mi sono sentita davanti al suo “Gracias Doctora! Ha sido un gusto hablar con usted”, e lo stomaco mi si è stretto per tutto il pomeriggio…
Adesso sono in fase di rielaborazione di tutte queste storie di vita… sto trascrivendo i dati raccolti al computer. Se tutto va bene, per la fine della mia permanenza qui, si riuscirà ad avere un data-base completo di tutte le famiglie che frequentano il Centro e poter così focalizzare l’attenzione e l’azione sui casi più urgenti. Non è molto, e avrei voluto fare molto di più, ma almeno qualcosa di concreto, seppure qualcosa di piccolo, forse l’avrò lasciato a Teresa e al suo splendido centro.
Parlando di salute… Chiaramente, appena arrivata, non poteva mancarmi qualche disturbo fisico: la terribile “Sindrome della Mongolfiera” non ha perso tempo a manifestarsi in tutta la sua orribile potenza, probabilmente a causa del forte sbalzo di temperatura e di quota: mani, gambe, faccia, corpo gonfi per diversi giorni, e una strana stanchezza che non riuscivo proprio a spiegarmi, vista la relativa inattività rispetto ai ritmi paceños e le camminate chilometriche in altura a La Paz. Per curiosità Teresa mi propone di misurarmi la pressione, e lì capiamo il perché del mio torpore mortifero: 48 di minima e 69 di massima, praticamente ero morta e non lo
sapevo!!! Con Luca, un volontario che presterà servizio qui per un anno, andiamo al “Centro de Medicina Natural”, gestito da alcune suore brasiliane, che curano con la fitoterapia: insomma mi trovano di tutto, ma la cosa più bella è stata che una delle suore mi ha guardato un attimo negli occhi, mi ha toccato un secondo la schiena e ha subito sentenziato “Presion baja!” e un’altra ha cominciato a scrivere una serie interminabile di disturbi che secondo loro avrei dovuto curare… morale: due borse piene di erbe, gocce, pillole, sciroppi, e un sacco pieno di terra. Cosa ci dovevo fare con la terra, mi chiederete voi: bella domanda, ma la risposta è molto lunga… 10 giorni di fila, di impacchi e cataplasmi di terra da mettere sulla schiena e da tenere addosso per 4 ore, con degli stracci/bende di cotone… È STATO UN INCUBO!!! Una prigionia che mi ha costretta in casa per 10 giorni con la ormai familiare sensazione di essere un “omino Michelin”, e la terra poi, che dopo un paio d’ore cominciava a seccarsi e mi cadeva nelle mutande, in mezzo alle chiappe, facendomi vivere dei “deja vu” (si scrive così? boh! Comunque avete capito!) lontani nel tempo, almeno quanto lo era il ricordo dei pannolini e delle cacate addosso!!! E poi: niente formaggio ne latte ne latticini, carne, uova, bevande gasate, alcol, per 15 giorni, direte voi: finalmente sei riuscita a dimagrire! Ma neanche per sogno! È vero che non potevo mangiare tutte quelle cose, ma per compensare,mi “scrafognavo” delle camionate di riso o cous-cous, da scoppiare… Insomma, ho fatto le mie cure e devo dire che almeno la “Mongolfiera” è volata via, ma la ciccia… è aumentata!!!
I giorni passano e, mentre in Italia c’è San Remo, qui in Bolivia e in America Latina tutta, arriva il carnevale, e per me comincia il rimuginamento sulle strategie più idonee a non farmi gavettonare!!! Mi salvo un po’ per via del fango da mettere addosso e che mi costringe in casa, un po’ con le pioggie che purtroppo continuano a cadere inesorabili e dunque non richiamano troppo la voglia di uscire. A carnevale la scuola rimane chiusa per 4 giorni e con Luca si era pensato di andare a fare quel
famoso giretto a Vallegrande e a La Higueira, a visitare i luoghi che hanno visto la morte del Che, ma le pioggie, che da quando sono partita non sono mai cessate, hanno causato disastri in tutta la regione. Al di la’ del viaggetto, che forse, un giorno potremo rifare, la situazione è veramente tragica: circa 300.000 senza tetto, tra la regione di Santa Cruz e del Beni, migliaia di case trascinate via, ettari ed ettari di coltivazioni distrutte, migliaia di capi di bestiame uccisi dalla furia dell’acqua… il paese è in ginocchio, tristezza e impotenza davanti alle immagini di
devastazione proposte dalla televisione e dai giornali.
La domenica prima del martedì grasso, io e Luca decidiamo di andare a fare una piccola escursione al villaggio di Cotoca, visto che ha fatto capolino il sole: il paesino è carino, colorato e festante, con bande musicali e donne in abiti tradizionali che ballano per le strade. Stranamente riusciamo ad arrivare indenni fino alle 5 del pomeriggio, quando decidiamo di rientrare… ed ecco il primo colossale gavettone (un gigantesco secchio d’acqua) che mi arriva da dietro, bagnandomi fin nell’anima… e di lì cominciano a prenderci di mira in tutti i modi: schiuma, acqua, palloncini con acqua colorata: sorrido e non faccio resistenza,tanto a che serve?
Stiamo quasi per arrivare a prendere un taxi, quando un gruppo di persone, sedute con le loro sedie sulla strada, ci chiama e ci offre vino. Secondo voi io non ci vado??? Mentre Luca chiacchiera con alcuni ragazzi del gruppo, io faccio conoscenza con la signora Cristina e suo marito Pedro e chiacchieriamo fitto fitto, ridendo, scherzando e continuando a sbevazzare… chiaramente non mancano allusioni al solito discorso “marito e figli”, ma ho cercato di non entrare troppo nei particolari, anche se loro
non erano per niente contenti di lasciare a metà il discorso… Bene, per farla breve, è finita che ballavamo in mezzo alla strada, mezzo ubriachi con questa gente, completamente bagnati fradici e con le faccie pitturate di rosso con il lucido da scarpe… bello, divertente e veramente gustoso riuscire ancora ad entrare in sintonia con degli sconosciuti e godere insieme di un momento di festa senza tante formalità! Cristina mi dice in un orecchio che spera che un giorno torni in Bolivia con mio marito, poi mi abbraccia forte: sono commossa, ma mi viene anche da ridere… Lei e
Pedro ci invitano a pranzo per il giorno dopo: “Siete i benvenuti!”… che bello, c’è ancora il posto per la condivisione e l’apertura al nuovo, nonostante la povertà…
Come già saprete verso i primi di marzo mi scadeva il permesso di soggiorno per cui ho dovuto progettare un mini-tour fuori dal paese. Avevo pensato al Brasile, ma i disastri causati dalle pioggie hanno devastato tutte le vie di comunicazione da Santa Cruz verso qualsiasi destinazione, tranne una: Yacuiba, al confine con l’Argentina… e va beh, i gauchi non è che mi stiano molto simpatici, con quell’aria da “Noi sì che siamo bravi! Siamo i migliori!” (insomma, se la tirano un po’ troppo per i miei gusti), tant’è, ho dovuto adeguarmi alla situazione. Bene: parto col mio bus e mi
faccio una notte intera (circa 10 ore) di viaggio arrivando a Yacuiba verso le 5 di mattina. Appena scendo alla terminal di Yacuiba, vedo un ragazzo con lo zaino e il sacco a pelo che guardava nel vuoto, così gli chiedo se vuole dividere a metà il costo del trasporto fino alla frontiera argentina: detto fatto. Non so quanto avrebbe aspettato ancora guardando nel vuoto, cotto com’era. Con il ragazzo (un argentino di Buenos Aires) facciamo delle belle chiacchiere, e decidiamo che, visto che anche lui vuole prendere il cammino per Tartagal e passare da Aguaray, magari potremmo trascorrere la giornata insieme. Arrivati alla frontiera boliviana usciamo insieme e ci dirigiamo verso quella argentina, ma mentre lui chiaramente viene fatto passare
immediatamente, io devo fare una fila per i controlli di rito. Il ragazzo (del quale non so neppure il nome!) mi dice ingenuamente “Ti aspetto di là!”, anche perché la fila non era poi tanto lunga! Almeno così sembrava! Morale della storia: ho aspettato 5 ore e mezza! 5 ORE E MEZZA! Vi rendete conto??? Non mi era mai successo, e la cosa più schifosa è che i poliziotti facevano passare molto velocemente chi pagava la mazzetta (venti pesos argentini, per la cronaca): è stata un’esperienza veramente brutta.
Donne con bambini che piangevano, con pacchi pesantissimi da portarsi appresso, anziani stanchi e tanta, tanta gente stanca e provata da viaggi pesantissimi… e la fila che invece di sfoltirsi si allungava sempre di più. Ad un certo punto, devono essere state le 8,30 o le 9,00, vedo il ragazzo argentino che era ancora dall’altra parte ad aspettarmi, gli ho letto in faccia la vergogna, poi con un sorriso gli ho fatto cenno di andarsene, che non era il caso che mi aspettasse ancora, lui un po’ con la coda fra le gambe si è allontanato: insomma ragazzi, i poliziotti boliviani hanno fatto una figura da splendidi in confronto! Per farla breve dalle 5 e mezza che mi ero messa in fila, sono riuscita ad entrare in Argentina alle 11,00… stanca morta (e anche un po’ incazzata) me ne vado a cercare un bus fino ad Aguaray. Raggiunto il villaggio mi cerco subito un hostal. MISSION IMPOSSIBLE!!! Finalmente arrivo nell’unico albergo del pueblo: una vera bettola (scarafaggi, pulci e acari nel materasso compresi!), ma ero talemnte stanca che non mi sarei più messa su un autobus
neanche se mi pagavano una mazzetta di 20 pesos!!! Comunque, dopo una dormitina, mi sono fatta una bella passeggiata nelle campagne circostanti… ad un certo punto ero su un sentiero in mezzo ad un quasi-bosco e, puf! Mi ritrovo in mezzo ad un gruppo di cavalli al pascolo… cavalli al pascolo!!! Che meraviglia, che belli! Saranno stati
almeno una ventina, di tutti i colori, e la cosa ancor più bella è stata che non avevo paura di camminare in mezzo a loro: è stato un vero contatto ravvicinato; non mi era mai capitato prima di “attraversare un corridoio di cavalli”; è stato quasi un sogno! Questo è uno dei ricordi piu’ belli di questo viaggio, del quale però non ho neppure una foto! Il giorno seguente sono andata a visitare Tartagal, un paesino a 30 chilometri da Aguaray.
Salgo sul bus e mi metto le cuffie per ascoltare un po’ di musica – chiaramente, l’unico chico de la calle ubriaco presente sul bus (ma anche nel raggio di 100 chilometri, suppongo!) , si e’ alzato dal suo sedile e si è venuto a sedere vicino a me: ”Hola! Que te llamas?” “Barbara y voz?” “Jorge, me llamo Jorge” “Hola Jorge como estas?”… ha cominciato a “molestarmi” (in senso buono!) come poteva: prima mi toglie le cuffie e vuole sentire la musica anche lui, poi mi controlla tutti i braccialetti,
poi mi vede la collana con la pietra che mi ha fatto personalmente e regalato Anita, la mia adorata nipotina, e mi fa i complimenti, infine mi tocca gli orecchini e mi fa un ok col pollice, che mi fa sganasciare dalle risate, ma ancora non aveva visto il tatuaggio! A questo punto è l’apoteosi dell’approvazione! Mi chiede quanti anni ho e salta sul sedile quando gli dico “Este agosto voy a cumplir 40 años!” non ci crede, vuole vedere un documento, poi si rassegna, ma ancora ha qualche dubbio… Jorge
invece ha 18 anni. Gli chiedo un po’ di lui, così comincia a raccontarmi di sé, di come sia scappato di casa, di quanto soffre per la situazione di tensione che vive in casa con i suoi: gli dico che dovrebbe bere di meno, che gli fa male, che se vuole “cercare la sua strada” deve mantenersi sobrio, ma lui alza le spalle, però non se la prende, mi fa un sorriso bellissimo, mi fa una tenerezza incredibile, col suo puzzo di alcol, i pantaloni lerci e la maglietta sporca di non so quanti giorni di
vagabondaggio. Il bus continua la sua strada facendoci dondolare in mezzo alla campagna e Jorge si addormenta con la testa appoggiata alla mia spalla, la spalla di una sconosciuta. Arriviamo a destinazione e Jorge mi dice: “Stai attenta Barbara! Tartagal è pericolosa!” “Più o meno come Lima?” gli chiedo sorridendo e dandogli i tre panini che avevo nello zaino.
Lui per tutta risposta mi abbraccia e mi dà un bacio sulla guancia, poi si toglie uno dei suoi braccialetti e me lo mette: io commossa lo ringrazio; si allontana un po’ barcollante e io lo guardo sparire dietro alla terminal bus, andare incontro al suo destino…
Per cena, alla sera mi sono fermata sempre in un chiosco vicino alla plaza del pueblo, dove la Señora Carmen cucinava a prezzi stracciati della carne buonissima e dei panini con la frittata che tuonavano… insomma, non mi sono fatta mancare niente, come al solito! Chiaramente la signora mi ha cominciato a raccontare tutta la storia della sua vita: del marito, che dopo tanti anni di matrimonio l’ha lasciata per una ventenne e di lei, che in fondo l’aveva perdonato, perché ha capito che era veramente innamorato della giovane… e poi di nuovo la stessa domanda di sempre (ormai
l’aspettavo al varco): “Ustedes no tene hijos?”. Il mio primo pensiero è
stato: “BASTAAAAAAAAAAAAAAA!!!” e invece le ho risposto molto dolcemente, perché tanto dolcemente proprio lei mi aveva aperto il suo cuore condividendo con me, una perfetta sconosciuta, i suoi sentimenti di donna amareggiata e ferita. E la cosa stupenda è stata la frase che mi ha detto salutandomi l’ultima sera: “Cara Barbara. Nonostante il dolore che provo, la sai una cosa? Non c’è un cosa più bella che amare qualcuno! Risposerei il mio ex marito 100 volte, perché siamo stati veramente felici insieme!” mi ha fatto venire le lacrime agli occhi, quella donnona grassotta e tanto brava a cucinare, con l’amore per la vita, per l’innamoramento senza veli, senza
compromessi. E il suo saluto finale? Dai che ci arrivate da soli! “Spero che un giorno torni qui ad Aguaray con tuo marito a mangiare da me!” … e cos’altro mi poteva dire???
Sono rientrata a Santa Cruz già da qualche giorno e mi sono rimessa ad inserire le informazioni raccolte durante i colloqui con le famiglie. Di tanto in tanto ho ricevuto le telefonate di Sergio, che aveva voglia di fare due chiacchiere e mi raccontava di come sta andando a scuola, e poi le telefonate dei detenuti del San Pedro che mi chiedono insistentemente quando tornerò a La Paz e molto ironicamente mi dicono: “Ti sei dimenticata di noi??? Ti sei fatta fare il lavaggio del cervello dai Cambas (i cruzeños)!!!” facendomi sorridere di tenerezza, poi si passano il telefono
l’uno con l’altro per mandarmi personalmente i loro baci… io credo di essere veramente fortunata. Davvero. È una emozione così bella quella che mi fa provare il rapporto con questa gente! e mi accorgo che il tempo, questa grande opportunità di crescita, corre in fretta, per voi e per me… e lascia i suoi segni forti nel cuore di chi vive intensamente… è bello “ascoltare dentro” i doni e i frutti del tempo che trascorre, dell’esperienza che si sedimenta e mette nuovi e inaspettati semi di
coscienza, come il vento che soffia forte, che attraversa le campagne, raggiungendo le montagne, facendo ondeggiare le cime degli alberi, sollevando la sabbia delle spiaggie, attraversando immensi mari e increspando le sue masse d’acqua, dando energia e forma ad un meraviglioso gioco di onde… sfiorando mille e mille visi, mille e mille storie, mille e mille destini, che, se solo lo vogliono, trovano se stessi immergendosi nella grande avventura della vita.
Vi abbraccio forte: Barbaridad
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