mercoledì 7 febbraio 2007

Scrivere ±= disegnare (di Bernardo M. Gianni)



dello stesso autore v. Scrittura e rivelazione
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immagine: Piccola serata dadaista (Kleine Dada Soirée) 1922, poster di T. van Doesburg e K. Schwitters



È quasi inevitabile constatare come, nell’epoca della riproducibilità tecnica – anzi, dobbiamo oggi specificare, della riproducibilità digitale e mediatica – le immagini della nostra quotidianità assai raramente siano «simboli pieni di significato» (J. Baudrillard), vitali e prospettiche rappresentazioni della realtà che interpellano e sollecitano il libero e meditato coinvolgimento del destinatario: al contrario sempre più frequentemente si riducono ad essere «simulacri» estranei a qualsiasi processo di creatività e ricezione, riproduzioni seriali incapaci di rendersi tanto testimoni originali e credibili di un soggetto e di un fatto, quanto foriere di una feconda riserva di senso ulteriore. D’altro canto già Nietszche ci avvertiva che «le verità sono illusioni di cui abbiamo dimenticato la sostanza illusoria, metafore ormai consumate che hanno perduto la loro forza sensibile, pezzi di monete che hanno perduto il sigillo e sono d’ora in poi valutabili non più come pezzi di monete, ma come volgare metallo». Tramontata forse per sempre, come ormai sovente si indulge a divulgare, la cosiddetta era Gutenberg, ci muoviamo con disagio, se non talvolta con vivo disappunto, nella densa «iconosfera» (S. Givone) dove, mortificata ogni dinamica riflessiva da una fin troppo facile emotività, il nostro sguardo sembra annegare in una caleidoscopica marea di immagini, molto spesso funzionali ad una omogeneizzata e banalizzante interpretazione della realtà oppure, al contrario, ad un’alienante e depistante dissoluzione della medesima realtà a tutto favore di provvisori e variopinti mondi fittizî e virtuali. Forti dell’assunto magnificamente sintetizzato da Paul Klee, per il quale «scrivere e disegnare sono due atti fondamentalmente identici», vorremmo da oggi offrirVi a intervalli piuttosto regolari una breve riflessione evocata da un’immagine generalmente fotografica, a sua volta frutto di una selezione condotta da un pensiero che con partecipe cordialità si vorrebbe affacciare sulla tormentata realtà del nostro tempo con vigile discernimento. Forse con imperdonabile audacia vorremmo che la parola, le nostre parole, sebbene inadeguate, educassero il cuore a interrogare l’immagine e a lasciarsi da questa interrogare per scorgerne la sua silente eloquenza di segno, di appello, di profezia. Al contempo vorremmo che l’immagine aiutasse i nostri pensieri, le nostre parole ad acquisire una sempre più nitida consapevolezza della presenza, della realtà nel suo oggettivo, elementare darsi e più ancora nel suo portato più profondo e nascosto che talvolta solo l’emozione degli occhi riesce a scorgere e a far intuire alla nostra mente distratta. Del resto è Aristotele che ci ricorda come «l’anima non pensa mai senza immagine». A questo proposito non dovrà sfuggire come la stessa fede sia assenso dato ad un annunzio che, oltre alla parola e ai concetti, non può non sopravvenire anche attraverso segni e immagini che sono esperienze che interpellano i sensi e l’immaginazione del credente. Non a caso quell’«immenso vocabolario» (P. Claudel) che è la Scrittura è divenuto non solo il «grande codice» (N. Frye) dell’Occidente letterario ma anche un inesauribile «atlante iconografico» (M. Chagall).
«Beati i puri perché vedranno Dio» (Mt 5,8), dice il Signore Gesù. Per la grande tradizione cristiana d’Oriente il cuore purificato del credente arriva infatti a cogliere la presenza di Dio in ogni cosa perché la sua anima, resa degna di aver parte allo Spirito, è divenuta, come scrive lo Pseudo-Macario: «tutta luce, tutta volto, tutta occhio; non vi è in essa parte alcuna che non sia ricolma degli occhi spirituali della luce, cioè non vi è in essa nulla di tenebroso, ma è trasformata tutta intera in luce e spirito ed è tutta colma di occhi; non ha alcuna parte posteriore o che stia a tergo, ma è volto in ogni lato, poiché su di essa è assisa l’ineffabile bellezza della luminosa gloria di Cristo». Solo quest’anima, fatta luce, volto e occhio sarà fatta capace di accorgersi di quanto «le realtà visibili lascino segretamente trasparire il mondo spirituale» (Massimo il Confessore). Fra le macerie delle nostre fragili immagini composte da mano umana, sempre più balbettanti per il nostro non saperle guardare o ascoltare, dobbiamo e possiamo ancora sperare di riportare alla luce immagini non mimetiche, non fittizie, non banali, non alienanti. Immagini che siano segno della trama misteriosa -‘divina’- sottesa alla geografia delle nostre inquiete vicende e, al contempo, immagini che sono plastico appello ad una sempre più fedele, generosa e indefessa dedizione alla terra, ai suoi bisogni, al suo destino. Immagine e parola nelle quali Dio e Uomo si incontrano (Gv 1,1.14 e Col 1,15), nelle quali invisibile e visibile, vita e morte, fede e disperazione, fantasia e cronaca, caso e provvidenza, obbedienza e libertà si toccano in una intuizione quasi irripetibile e, in definitiva, inintelligibile, tuttavia capace di corroborare la nostra fede, il nostro amore, la nostra speranza: «Colui che mai non vide cosa nova / produsse esto visibile parlare, / novello a noi perché qui non si trova» (Dante, Purgatorio, X,94-96).

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