lunedì 4 novembre 2024

Una scabra e severa verità

recensione di Alida Airaghi pubblicata su Gli Stati Generali

Scandita in sette sezioni, la raccolta Appunti eoliani di Guglielmo Aprile (Napoli 1978) si offre al lettore in una scabra e severa verità, assunta dalla durezza dell’argomento affrontato, e dalla sua originale consistenza. Quanto di più duro e durevole, infatti, della roccia? Della sua costante stabilità, e persistente indifferenza? Al mondo minerale sono dedicati i versi del poeta, che a esso si adeguano in ponderata classicità, scalpellati in un lessico privo di stratagemmi o virtuosismi sperimentali, e in una metrica sostanzialmente tradizionale che però affida alla spietatezza dei continui enjambements il suo ritmo accanito. Guglielmo Aprile si confronta con l’immutabilità dei sassi, degli scogli, con l’eternità di cielo e mare nel paesaggio solenne ed essenziale delle isole Eolie, e ne assimila l’austera segretezza. Delle rocce intuisce vibrazioni nascoste, vita palpabile che le rende simili alle creature animate, e in primo luogo a se stesso, al suo corpo “che si fa alga o pomice”, alla sua memoria, al suo interrogarsi sul destino umano e non umano: “io levo con lo sguardo un muto appello / e ad uno ad uno i vostri volti interrogo: / chi siete e chi sono io, qual è l’essenza / del vento, della pioggia, come nacquero / le lune, le montagne, i boschi; e a tratti / ho l’illusione che nei blocchi inerti / quasi un sussulto, un fremito si agiti / e che, dentro la pietra, delle bocche / si disegnino, a poco a poco: bocche / che stiano per parlarmi, che potrebbero / sciogliere un qualche oracolo, concedere / solo a me una risposta, rinnegando / il silenzio, il divieto che le tiene / da millenni nel sonno imprigionate”.
La personalizzazione del mondo minerale inizia già dal titolo della prima sezione, Ha un’anima la pietra, in cui sassi rocce scogli vengono osservati con stupefatta tensione, riconoscendo nelle loro grinze, negli squarci, negli ammassi i lineamenti di facce familiari: bocche si animano, occhi si spalancano con l’intenzione di comunicare qualcosa di essenziale, un segreto o forse un’ammonizione, l’avvertimento di un pericolo che sovrasta l’inconsapevole regno animale, l’innocente regno vegetale. Le pietre hanno anime e volti, “volti” citati ben diciassette volte nella raccolta, “sfigurati… esangui, stremati”, nati dal moto ondoso e subito costretti in forme immobili, “convertiti / in capricciose sculture che ostentano / fiere posture michelangiolesche”, “statue di calcare…immobili erme mute”. Rocce nate dal movimento del mare, affiorate da vortici di sabbia, che dai loro profili scolpiti in millenni di vento, pioggia, salsedine, fanno emergere sagome di titani, musi equini, erinni scomposte, opliti precipitati da alte rupi, danzatrici sacre, forzati rinchiusi nelle stive di una galea che sta per affondare. Migliaia di corpi vivi in un passato lontano sono rimasti bloccati in pose immutabili per chissà quale ingiusta sentenza, diventando fossili, pareti o dirupi incapaci di urlare la loro rabbia, la loro sofferenza: “Macigni condannati – è in voi che tutto / il dolore del mondo si è rappreso:/ nei vostri volti di tufo si è fatto / universale archetipo e ci parla”. L’idea di una crudele violazione patita dai minerali inerti, viene ribadita in maniera ossessiva in moltissime poesie ad amplificarne la valenza emotiva, con il rischio tuttavia di renderla meno drammatica e pregnante, pur nella sua innegabile seduzione.

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